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"Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina", scriveva a metà Seicento il matematico Pierre de Fermat lanciando così un guanto di sfida ai cacciatori del sacro graal dei numeri. Per Maria Corti anche l’Etna – il suo lupino selvatico la ginestra menade il tramontano-mannaro gli eroi bretoni e i diavoli della controriforma – lancia il guanto di sfida per la soluzione del suo enigma. Un enigma che disegna tatuaggi in atri e ventricoli di Mito e Storia, Umano e Divino, che attraversa tutte le età. Dall’oro dell’Opòra-Pace del poeta di Beozia, Esiodo, al ferro della guerra del menestrello d’Etna, Santo Calì. Pindaro, demiurgo d’epinici alla corte di Gerone, stupiva "dell’Etna nevoso, colonna del cielo", e Tocqueville spauriva di quello "spettacolo com’è dato di vederne una sola volta nella vita" del Vulcano contorsionista illusionista, che allungava ombre come fossero braccia e civettava con la sua mole di balze come una silfide callimachea. Il gene del Vulcano, sulfureo e igneo, mistico e demoniaco, mediterraneo e celtico, supera – puledro ignaro di sella – le staccionate del Tempo. La cronologia degli almanacchi. Le mappe scalari della geografia catastale. Maria Corti se ne chiede le ragioni. Le chiede alla mitologia e alla filosofia, ai Ciclopi e alle Sirene, a re Artù e alla fata Morgana, a Empedocle e a Pietro Bembo. Bussa a tutte le porte – case rurali ville manieri – raspando con il furor d’un archeologo al primo scavo. L’Etna della fabula-leggenda ha sfrattato l’Etna della scienza (il pleistocenico il primordiale il moderno). La fabula, inviolata e inviolabile, non patisce curiosità né insulti. Per l’apostata il supplizio del fuoco. Si rinnova l’orrore di Tiresia che Pallade volle cieco per averne visti i lavacri nella corrente dell’Inaco. O d’Erisìttone che Demetra dannò a fame fatale perché con empia scure ne aveva reciso il pioppo sacro. Coreuta nello stasimo del dies irae, l’Etna è giusto dispensiere di Bene e Male. Occhio in sempiterna veglia sulla pietà e sull’oltraggio. Sulla virtù e l’ignominia. La lava del V secolo a.C. risparmia solo i fratelli Pii che portano sulle spalle il corpo caro dei cari genitori. Null’altro salvando che la veneranda vecchiaia del padre e della madre. Per tutti gli altri, cupidi di salvare beni e masserizie, la morte sulla pira delle torciere di fuoco e lava. Ci avviciniamo alla soluzione dell’enigma se, abdicando a passi autorevoli – classici medievali rinascimentali – seguiamo in silenzio orme comuni di piedi nudi scartavetrati. Orme di isolani etnei che auscultano a Muntagna. Il suo murmure eterno che giunge a valle, sussurrato rosario di monaci eremiti, l’orgia delle ginestre che arrampicano verso il cratere in processione offrendo, nel kálathos dei petali, gli arredi sacri per il sacrificio di sangue e fuoco. La mattanza degli empi. Non è ancora giorno sulla mezzacosta etnea quando la ciurma di braccianti e vignaioli arranca, a piedi o con la mula dal passo lento, verso vigne di viti sghembe, che succhiano gli umori della lava e ne fanno vino. O verso ciglioni di fichidindia nani ululanti con spine puntute che sembrano saette. Gebel el Nar s’intana in covoni di nebbia extravaganti, minacciose spirali di fumo d’una riserva apache. Sull’Etna non si fa mai giorno a dispetto dell’astrolabio e dell’astronomia, a conforto di nottole e pipistrelli. La ciurma di pescatori arranca verso la pescheria che ancora l’alba non intonaca il cielo sulla costa ionica. Braccia color terracotta, arse di sole e sale, spingono la carretta pitturata dai padri col muto orgoglio di quando spingono in corsa, per l’aspra salita di via san Giuliano, il carro con la santuzza martire e vergine. Gli omeri possenti da discoboli greci. I piedi nudi sulle basole nere dove le carrozze dei Viceré hanno lasciato le stimmate del vaiolo. Sulla carretta il trionfo d’una pesca misera, sgamirri sardine pizzuteddi. Vendetta del mare per la iattanza umana che infetta alghe e polipi, che viola anfore e crateri nella placenta dei fondali. L’umano zibaldone etneo – pescatori vignaiuoli giostrai tegolari felloni accademici dandy monaci – appena desto, prima del segno della croce, guarda il Vulcano. Da millenni i suoi occhi guardano il Titano che rutta nomadi petardi di fuoco. Come gli àuguri latini il volo degli uccelli per aves specere. Come gli indovini greci la pizia delfica. Ma il teorema "Etna" resta insoluto, indimostrabile. Vittorioso, dopo mezzo milione d’anni, sulle eruzioni del Tempo inceneritore. Maria Corti riprende con
recensioni di Grasso, S. L'Indice del 1999, n. 06
Silvana Grasso, che ha letto Catasto magico per "L’Indice", è una siciliana di buoni studi classici. Nata a Giarre, vive e insegna a Gela. Ha tradotto dal greco Archestrato di Gela, Matrone di Pitane, Galeno, Eronda. Scrive racconti e romanzi, caratterizzati da una scrittura accesa, da una tensione stilistica che s’accompagna ai temi della visionarietà e corporalità. Dal 1993 ha pubblicato quattro libri, di cui il più recente è il romanzo L’albero di Giuda (Einaudi, cfr. "L’Indice", 1997, n. 7).
Maria Cristina Faraoni, nata in Toscana, ha studiato all’Università di Firenze ma vive da anni a Torino. Ha insegnato nella scuola media e come narratrice esordisce ora con
I giorni delle bisce nere, racconto autobiografico dell’infanzia e dell’adolescenza. Racconto di formazione, in famiglia e a scuola, con la nonna e in collegio, sullo sfondo di un preciso ambiente di paesi poveri dell’Appennino tosco-emiliano, segnato ancora dalle memorie della guerra.
Anche il suo recensore, Pietro Ferrero, è scrittore non professionale, arrivato alla narrativa nella piena maturità. Torinese, uomo di teatro, assai noto nel campo dello spettacolo, Ferrero ha esordito da poco con un libro sorprendente e di grande impegno: Lettere ai romani (Garzanti, 1998; cfr. "L’Indice", 1998, n. 8), romanzo in forma di epistolario fra due preti degli anni cinquanta, che sviluppano un itinerario di riflessione sulla vita religiosa e sulla condizione del sacerdote.
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