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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2024
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In assoluto il migliore saggio che abbia mai letto. Fumaroli, sovrano seduto su un trono di libri alto come Notre Dame de Paris, racconta con equidistanza, grazia e piacevolezza (non vi è ombra di contaminazioni ideologiche o di gallica spocchia) lo Chateaubriand uomo, poeta, giornalista e politico: ne esce una delizia per palati esigenti servito su servizio di Sevres bordato oro! L'autore francese e membro dell'Academie non intendeva scrivere una biografia e non lo fa ma la vita del conte di Saint Malo viene svelata grazie alla descrizione dei rapporti con gli uomini della sua epoca: Luigi XVIII, Napoleone,Talleyrand, Tocqueville. Come se non bastasse il testo è una fonte continua di aneddoti su personaggi dell'ancien regime, del direttorio o della restaurazione: tanti testimoni dell'epoca sono tratteggiati con umanità e rispetto umano. Mi ripeto: una delizia che andrebbe letta durante una vacanza a Parigi. Nonostante il costo e il numero di pagine lo ritengo un testo fondamentale per chi voglia conoscere l'uomo attraverso la letteratura Adelphi dimostra una sensibilità editoriale sopraffina.
Recensioni
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In Italia la prima traduzione integrale dei Mémoires d'outre-tombe è giunta con un ritardo di circa centocinquanta anni (cfr. "L'Indice", 1995, n. 11). In Francia, si dice, i Mémoires vivono tra i due estremi delle antologie scolastiche e della ricerca universitaria, assai meno per il piacere del lettore comune. A scoraggiarne una maggiore popolarità è anche la loro estensione e complessità, l'infinito itinerario che dall'Ancien Régime, attraverso passaggi cruciali come la Rivoluzione, l'Impero e la Restaurazione, giunge alla monarchia di Luigi Filippo; tanto lunghe sono le coordinate biografiche di Chateaubriand (1768-1848) che la Francia ha il tempo di passare da Laclos a Balzac, dalle galanterie di Grétry a Berlioz, dalle nature morte di Chardin a Delacroix. E poi c'è la mobilità di quest'opera, la sua inesausta geografia che (sulle orme dell'esule, dell'ambasciatore o dell'esploratore: secondo le alterne fortune) viaggia dalla Bretagna alle foreste americane, da Londra a Istanbul, da Praga a Venezia, da Cartagine ad Atene, e ancora, Menfi, rovine romane, valichi alpini.
Ma è antica, e quasi ciclica, una certa insofferenza verso Chateaubriand. Nasce da alcuni agguerriti contemporanei (Stendhal, Merimée, Courier, ma anche Heine) ed è controbilanciata dal culto della generazione di Flaubert, Baudelaire e Goncourt; ma poi torna a dilagare, in chiave ideologica, tra le intelligenze più influenti del Novecento (Sartre; persino Gide): è troppa la "distanza" da quel crogiolo di ambizioni storiche, ormai in disuso, e invincibile l'irritazione verso una prosa così solennemente autoreferenziale (l'etichetta "Gran Pavone" fu coniata da Gracq).
Oggi Chateaubriand e il suo libro sapienziale non potrebbero trovare migliore "défense et illustration" di questo ponderoso testo di Marc Fumaroli (molto ben tradotto da Graziella Cillario), nei cui capitoli ci si addentra sovrastati da un'erudizione vertiginosa, non nuova al saggista di Lo Stato culturale o Le api e i ragni. La fretta dei nostri tempi ne resta fuori: l'autore non fornisce né sintesi stringenti, né comodi résumés né tantomeno indici di nomi; l'ultimo capitolo, su Tocqueville, non chiude comodamente alcun cerchio. La densa scrittura, esemplarmente chiara, passa senza sbalzi di registro dall'excursus storico-filosofico a parentesi strabilianti di storia letteraria (la Querelle di Anciens e Modernes), a spezzoni biografici godibilmente imponenti (Pauline de Beaumont, Juliette Récamier). Si apprende tutto su contemporanei in ombra come Fontanes e Ballanche; nuove angolazioni illuminano il "duello postumo" con Byron, il confronto con Napoleone, l'influsso del Paradise Lost di Milton o il profilo dell'ineffabile Talleyrand ("testa di morto", la più algida e detestata figura degli interi Mémoires).
Cadono molti ostinati luoghi comuni allorché Fumaroli chiarisce che "le Memorie non sono affatto un'autobiografia (
): sono un'Odissea nella quale Itaca è perduta per sempre". È la liquidazione, appunto, di tutte le ricerche indiziarie alla Sainte-Beuve (e piccoli seguaci: Henri Guillemin) volte a individuare dissimulazioni o reticenze autobiografiche in un'opera in cui il vettore è poetico prima che banalmente veritiero.
E l'Itaca perduta è la Restaurazione liberale e costituzionale (con i Borboni sul trono, senza le degenerazioni dell'Ancien Régime) sognata e perseguita invano da Chateaubriand tra le diffidenze incrociate dei contemporanei ("troppo ultras per i liberali, troppo liberale per gli ultras"). Nelle more del nobile e irrealizzabile compromesso restava "democratico per vocazione" purché chiarisce Fumaroli "democrazia non significasse violenza, centralizzazione, livellamento". Il sopravvissuto al Terrore paventa dei francesi l'essere "dogmaticamente innamorati del livellamento", l'assolutismo teorico, il minaccioso azzeramento delle tradizioni con cui propugnano i buoni principi del 1789. Con acume non minore osserva: "Non amano la libertà, solo l'eguaglianza è il loro idolo. Ora eguaglianza e dispotismo hanno segreti legami".
Se netta sarà la distanza dal pensiero dei reazionari del momento (da Barruel a de Maistre), l'unica adesione al secolo dei Lumi è per il controverso Rousseau, teorico della contrapposizione tra stato di natura e stato di società (non meno formativa, per Chateaubriand, di quella fra stato di grazia e stato di paura dell'altro suo mentore, Fénelon). Rousseau fu "il primo specchio in cui riconobbe il suo io profondo", un ascendente resistente anche alla scoperta di quanta "violenza estremistica" celasse in realtà la "tenerezza" del maestro. D'altronde, è dall'autore delle Confessions, dalla sua lingua sino allora "ignota", che Chateaubriand, nutrito della più robusta prosa del dix-septième (i Lumi sono ancora una volta fuori gioco), ricava la propria inimitabile "voce delle grandi acque" (Baudelaire). A essa i Mémoires devono inedite capacità pittoriche, e via via un allargamento telescopico della visione "come in un totum simul che lo sguardo e la mente hanno il potere di contemplare e di meditare". A questo punto, con Fumaroli, il gioco di assonanze, diacronie e suggestioni conduce a svolte insospettabili. Il canto della partenza, la vocazione allo sradicamento, l'oceano e le terre che si aprono allo Chateaubriand esule sono diretti precedenti per le poetiche dell'erranza di Melville e Conrad, Stevenson e Rimbaud (già il protagonista del giovanile René era, secondo il critico, prefigurazione inquietante del cantore della Stagione all'inferno e del Kurtz di Cuore di tenebra).
Con Proust che, come Chateaubriand, allea muse e parche, le parentele sfiorano il tangibile; non solo perché la memoria involontaria, si sa, ha sicuro archetipo nel canto del tordo nel parco di Montboissier (e questi, a sua volta, nelle pervinche cerulee di Rousseau), ma per diverse altre reviviscenze ricordate dal critico (una per tutte, il parallelo tra l'appello dei morti di Verona e il parodistico elenco dei coetanei sotterrati stilato da Charlus con "ferocia di sopravvissuto"). Anche per questo spartiacque tra il proprio bagaglio classico (Virgilio, Milton, Tasso, il Grand-Siècle) e i fermenti di futuro di René, Nantchez o Mémoires, Chateaubriand resta "navigatore tra due rive". Così, certe leggere frecciate contro il descrittivismo minuzioso dei romanzieri realisti sono, viste à rebours, premonitrici della futura riscossa simbolista.
È il felice paradosso di Fumaroli sui Mémoires: "Quest'opera-madre dell'anti-modernità è ultra-moderna per la critica della modernità che la pervade". Modernità non da intendere solo come spettro di brusche svolte politiche. C'è un'anestetizzazione del Terrore che Chateaubriand teme più dell'evento di sangue, ed è il mito di un progressismo che va estendendosi incontrollabile, appiattente, falsamente democratico, stolto, immemore di religione e di passato. I Mémoires paventano "un mondo di macchine, di chiacchiere e di presunzione soprannominato società modello"; prevedono il trastullo di canali e ferrovie e insieme "maneggi sulle arti, accordi sulle lettere": un "universo di noia".
Lo strepitoso descrittore di paesaggi non può non deplorare nel '32, tra i fumi della nascente industrializzazione, i sentieri della campagna inglese "trasformati in rotaie di ferro"; il lamento sulle vecchie strade delle Alpi normalizzate, sull'esempio del Sempione, dai nuovi agi e dalla tecnica, ispira passi degni di certi Minima moralia. E poi, ecco strane profezie, incomprensibili ai contemporanei, come questa sul vestiario della Rivoluzione: "Tutti portavano la casacca, uniforme del mondo nuovo, e che si riduceva a essere allora l'ultimo vestito dei condannati futuri". Fumaroli le chiama "chiaroveggenze poliedriche" e nei condannati futuri intravede i predestinati dei campi di sterminio.
Chateaubriand. Poesia e Terrore è un atto d'amore verso il più lucido e coerente dei conservatori, non piegatosi né a rivoluzioni né a monarchie assolutiste o "bottegaie". Non c'è quasi pagina del saggio che non ceda la parola a stralci dei Mémoires, veri sprazzi di intelligenza e di inarrivabile letteratura. I detrattori per malevolenza o miopia (come "Sainte-Beuve-Javert") non mancano di ricevere la meritata reprimenda. Sembra di rileggere la sferzata di Baudelaire a un'eminenza grigia dell'Académie e al suo moraleggiare ottuso sui Mémoires: "I Villemain non capiranno mai che gli Chateaubriand hanno diritto a immunità e indulgenze cui tutti i Villemain del mondo non potranno mai aspirare".
Carlo Lauro
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