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La scelta di raccontare la storia attraverso l’occhio impreciso e nevrotico di una videocamera digitale è sicuramente vincente, questa soluzione stilistica farà storcere il naso a molti visto che la fruizione dello spettacolo non è delle migliori (stacchi, immagini tagliate, movimenti bruschi e definizione nel complesso “traballante”) ma ha il grosso merito di coinvolgere in modo incredibile lo spettatore (grazie anche all’ottimo utilizzo degli effetti sonori). La soggettiva della videocamera contribuisce in modo determinante a creare (e a mantenere per tutta la durata della pellicola) un clima di incertezza e di paura, seguire i protagonisti per le strade distrutte di New York (e i richiami politici alla tragedia dell’11 Settembre sono più che mai evidenti) diventa quasi un’esperienza sensoriale.
Il film di Reeves è uno dei capisaldi del mockumentary (e del found footage) nonché una delle vette più alte toccate per quanto riguarda questo genere. La storia è molto semplice però è interessante il fatto che ci siano due linee narrative che (letteralmente) si sovrappongono. Da una parte c’è la ripresa in tempo reale della distruzione della città, dall’altra la testimonianza della storia d’amore tra il protagonista e la sua migliore amica. Il nastro sul quale era stata registrata la giornata passata assieme dai due personaggi (della quale ogni tanto si vedono dei momenti), viene sovrascritto dalle riprese di Hud. In conclusione, Cloverfield è uno dei film che meglio rappresentano la cinematografia americana post 11 settembre nonché uno di quelli che riescono meglio ad esorcizzare il trauma americano per eccellenza.
Secondo me poco riuscito e noioso in tutta la sua durata. Le riprese in prima persona con la videocamera traballante, anziché creare nello spettatore la giusta tensione, rendono tutto piuttosto fastidioso. Per giungere alla fine senza in realtà vedere nulla.
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