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"Metà del male fatto nel mondo lo si deve a persone che vogliono sentirsi importanti. Non intendono fare del male, ma il male non li preoccupa. O non lo vedono, o lo giustificano immersi come sono nella lotta incessante per pensare bene di se stessi". E' una delle grandi chiavi riflessive in cui può fissarsi questo testo, potente affresco di animi smarriti, impreparati alla vita, persi in un cambio di scene fra feste e fra lustrini, fra sorrisi e bevute dove però a un certo punto la voce di un certo ospite - invenzione magnifica - apre uno scenario di clinica, stupenda sterzata. Cos'è successo? Nient'altro che l'evitare di scendere in se stessi, lo sgusciare di fronte alla profondità, il non conoscersi se non per sponde fatue, irrilevanti, minimi tradimenti per puro costume, ma mai tesi davvero a imprimere una svolta. Ecco qui la prigionia dell'identità, specchio infranto nel quale le parti di frantumano in spigoli sfuggenti, irrazionali, e ogni parte diventa estranea a se stessa, mosaico sfilacciato fra le mani: "Che cos'è l'inferno? L'inferno siamo noi, è essere solo, e le altre figure in esso mere proiezioni. Non c'è niente da cui scappare, niente da raggiungere. Siamo sempre soli". Ma l'eccezione arriva: qualcuno, nei dialoghi che si succedono, si è veramente dato al sacrificio di sè, alla lotta, all'affronto del senso e del nonsenso, fino a pagare tutto. E sarà l'unico brillio di sfida autentica nell'ammasso di vapore che ammanta le scene. Tolto tuttavia un primo sbigottimento, un ricordo caro legato a questa figura, la cappa di una difesa di ruoli e di una paura della vita tornerà a dominare gli intenti, le volontà, il domani. E' così che ci si accomiata, un dentro che sa ma che sceglie di rifiutare un reale troppo complesso e alla fine torna al suo lessico effimero, sospeso. Il vestito per il prossimo party è perfetto, scende stupendamente. E il sipario cala fra complimenti e riguardi. Sul resto delle cose una dolce e colpevole amnesia.
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