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Il colibrì
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Il colibrì - Sandro Veronesi - copertina
Il colibrì - Sandro Veronesi - 2
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Il colibrì
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colibrì

Descrizione


Libro vincitore del Premio Strega 2020

Un romanzo potentissimo che incanta e commuove sulla forza struggente della vita.

Miglior libro dell'anno 2019 per «La Lettura».

«Veronesi racconta con sapienza la crudeltà del vivere e, inevitabilmente, del morire soffrendo, ma lascia una porta aperta che riguarda chi verrà dopo a portare la pace e il benessere, un’età dell’oro, in un mondo finalmente ibrido e affratellato»Robinson

«Di questo libro si dirà che è un capolavoro»Marco Missiroli

«Il colibrì andrebbe lanciato nello spazio per far sapere agli extraterrestri come eravamo, come siamo stati, come avremmo voluto essere. Da questo romanzo, pieno di coincidenze e collisioni fatali e maligne, si esce imparando la lezione più difficile, quella di morire restando vivi» Antonio D’Orrico, Corriere della Sera

«Uno dei romanzi più belli degli ultimi dieci anni»Vincenzo Mollica

Il colibrì è tra gli uccelli più piccoli al mondo; ha la capacità di rimanere quasi immobile, a mezz'aria, grazie a un frenetico e rapidissimo battito alare (dai 12 agli 80 battiti al secondo). La sua apparente immobilità è frutto piuttosto di un lavoro vorticoso, che gli consente anche, oltre alla stasi assoluta, prodezze di volo inimmaginabili per altri uccelli come volare all'indietro... Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è una vita di perdite e di dolore; il suo passato sembra trascinarlo sempre più a fondo come un mulinello d'acqua. Eppure Marco Carrera non precipita: il suo è un movimento frenetico per rimanere saldo, fermo e, anzi, risalire, capace di straordinarie acrobazie esistenziali. Il colibrì è un romanzo sul dolore e sulla forza struggente della vita, Marco Carrera è - come il Pietro Paladini di "Caos Calmo" - un personaggio talmente vivo e palpitante che è destinato a diventare compagno di viaggio nella vita del lettore. E, intorno a Marco Carrera, Veronesi costruisce un mondo intero, una galleria di personaggi indimenticabili, un'architettura romanzesca perfetta come i meccanismi di un orologio, che si muove tra i primi anni '70 e il nostro futuro prossimo - nel quale, proprio grazie allo sforzo del colibrì, splenderà l'Uomo Nuovo.

Proposto per il Premio Strega 2020 dall'Accademia degli Scrausi:
«IL romanzo che viene presentato
COmincia con un segno beckettiano
LIbrandosi da Roma (e poi lontano,
BRÌndando alla forza del passato:
Si alza in volo). Un Miraijin neonato
Arriva tra i righi (e si ritrae, piano:
Nasce al presente di un nuovo italiano;
Donna è il futuro qui prefigurato).
Racconti di luce e fili inventati;
O di voci: e distese di sabbia;
VErità atroci esibite e non viste.
ROcce di pagine e suicidi a strati
NEgli anni sospesi. E un'unica gabbia
SI sogna da sola un sorriso triste.
L'Accademia degli Scrausi presenta al Premio Strega 2020 Il Colibrì (La Nave di Teseo) di Sandro Veronesi. Anche solo per ricordare agli Amici della Domenica la forza commovente del suo protagonista Marco Carrera. Preghiamo per lui e per tutte le navi in mare.»

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Dettagli

2019
24 ottobre 2019
368 p., Brossura
9788834600474

Valutazioni e recensioni

3,86/5
Recensioni: 4/5
(429)
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5
(174)
4
(116)
3
(75)
2
(34)
1
(30)

Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.

LUCIANO
Recensioni: 5/5
Bellissimo

Solitamente, prima di vedere il film, leggo il libro. In questo caso, pur avendo visto prima il film, la lettura del romanzo è stata comunque emozionante. Anche se ormai sapevo tutto, finale compreso ovviamente.

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Ketty
Recensioni: 5/5

360 pagine letteralmente divorate. Un libro che mi ha catturato immediatamente e che non sono più riuscita a lasciare fino all'ultima riga. Inteso e struggente, Bellissimo.

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giacomo
Recensioni: 4/5

Da leggere!!

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Recensioni

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Voce della critica

I vincitori del concorso "Caccia allo Strega" 2020

Ross – Recensione stregata scelta da Sandro Veronesi

Che cosa accade quando un fragile colibrì, per sopravvivere alle vicissitudini della vita, deve indossare i panni di un’aquila reale? Il colibrì è Marco Carrera così soprannominato, già in tenera età, per la sua piccola statura. Con un continuo alternarsi di passato e presente, il libro ne racconta la storia: un’esistenza tormentata da terribili lutti e dolori. Ma il colibrì sopravvive alle sciagure con tenacia e intelligenza e con l’aiuto di uno psicoterapeuta divenutogli amico. Una relazione singolare, questa, nata suo malgrado, proprio per lui che non ha mai creduto nella psicoanalisi. Lo stile della narrazione è lieve, garbato, a tratti poetico e costellato di riferimenti letterari. L’abilità di Veronesi nel toccare le corde giuste quando si tratta di drammi familiari, e l’empatia che suscita il protagonista, fanno sì che ogni pagina del romanzo produca un’eco che rimane nella mente del lettore. Impossibile non riconoscersi negli stati d’animo del colibrì con le sue debolezze, i suoi problematici rapporti con i parenti, i suoi amori irrisolti. Impossibile non voler conoscere il seguito della storia. Alla fine appare evidente che Marco Carrera non è rimasto fermo, come solo i colibrì sanno fare, battendo freneticamente le ali, ma ha percorso un lungo, arduo cammino di crescita interiore. E nonostante le tante sofferenze, non è la tristezza il sentimento che prevale, bensì la consapevolezza di aver affrontato i propri demoni, come unica via possibile per sentirsi finalmente liberi e in pace con se stessi e con l’umanità intera. Copertina :5 Stile:5 Storia:5

Franz Meilenweit

La narrativa, solitamente, tratta di personaggi in moto più o meno inesorabile da un punto A ad uno B. Non stavolta. Marco Carrera non ha intenzione di cambiare niente nella sua vita. Perché dovrebbe sostituire quel vetusto giradischi se ancora fa cantare i suoi vinili comprati forse in gioventù? Eppure la superficie di uno dei suoi dischi si è rovinata inspiegabilmente: un danno irreversibile. La puntina non potrebbe mai attraversare quel burrone da sola. Il nostro protagonista dovrebbe alzare la testina e poggiarla poco oltre oppure potrebbe girare il disco. Cosa decide di fare? Preferirebbe niente, se solo gli fosse possibile. Ecco, M. C., nella sua voluta banalità, è un protagonista atipico. La sua ostinazione è degna, appunto, di un colibrì: gli costerà tutta l'energia della sua vita ma non vuole perdere un centimetro di quota. Nell'epigrafe si cita Beckett: ma M. C. non è condannato ad una promessa perpetuamente disattesa. La sua stasi è, piuttosto, un'autodeterminazione non meno disperata rispetto alla condizione assurda di Vladimir ed Estragon, prigionieri di un universo puntiforme. Il protagonista potrebbe anche voler tornare da un punto A ad uno A, il topos odisseo. No, la circolarità non è proprio nei piani del protagonista. Vorrebbe soltanto tornare alla sua collaudata routine spazzata via da un imprevisto uragano: non è niente di meno per un colibrì. Al di là della trama, a tratti geniale, la lettura scorre piacevolmente. La gestazione di questo romanzo da parte di un autore mai banale ha prodotto una sintassi originale e brillante arricchita da un lessico ironico e non convenzionale. Per quanto vale la mia modesta opinione lo promuoverei a pieni voti se non fosse che, se Sandro Veronesi si convincesse di essere arrivato all'apice della sua ricerca narrativa, per rimanere allo stesso livello si scoprirebbe condannato proprio al volo del colibrì. Il mezzo voto in meno è allora un attestato di stima. Copertina: 4. Storia: 5. Stile: 5.

Lucia17

Come la più piccola creatura volatile con un movimento continuo delle sue ali riesce a librarsi nell'aria, così Marco, con un’energia immane e una fatica logorante, mai ostentata, continua a respirare e a resistere alle proprie tormentate vicissitudini. Più o meno consapevolmente la sua vita scorre secondo una prospettiva a margine, mentre sono le donne che costellano la sua vita ad avere un ruolo decisivo, a scegliere per lui. Dapprima la madre, quando contro il parere del padre, sceglie la cura che lo aiuterà a crescere, poi Irene, la sorella maggiore, che con la sua sensibilità crea uno scudo per mitigare le tensioni familiari. Poi è la volta della moglie, quando decide di allontanarsi da lui lasciandolo solo ad accudire la figlia Adele, un filo invisibile tiene insieme tanta fragilità; un immenso dolore fino al dono più prezioso, Miraijin, che diventerà la sua stessa ragione di vita. E mentre il Dottore Carradori per impedirne l’annientamento, invita quest’uomo ad indossare la mascherina e continuare a respirare (un consiglio che oggi, nel 2020, diventa una sorta di presagio) c’è una presenza costante che fa da sfondo alla vita di Marco, è Luisa, lei c’è stata sin dall'inizio. Il grande amore di sempre. Il desiderio negato. Un amore corrisposto, ma non scelto, rimasto platonico. Un amore dolcissimo, intenso, epistolare, tante, tantissime lettere, e allora, come può essere un amore vero, il grande amore? L’ultimo bacio struggente, commovente, tanto atteso rivela l’emozione di un amore sconfinato, mai sopito, mentre si compie con grande maturità e serenità la più importante delle scelte di Marco. Copertina: 4 Storia: 5 Stile: 5

Francis88

Siamo avvisati sin dal primo capitolo: quella che ci apprestiamo a leggere è una storia “dalle molte altre storie”, “dai molti altri centri”, “dai molti altri momenti critici”. E la promessa è mantenuta: salti temporali, spaziali e stilistici si susseguono, capitolo dopo capitolo; è il lettore che deve dipanare il filo logico, narrativo e temporale di questa apparentemente disordinata miscellanea di fatti e di oggetti che gli è rovesciata davanti. Disordinata solo apparentemente, perché l'impianto narrativo dell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi non lascia nulla al caso. A reggere le fila di questa complicata architettura è il protagonista: Marco Carrera, oftalmologo fiorentino, perseguitato da un destino beffardo e circondato da donne che trascorrono ore dallo psicanalista, “parlando di lui senza di lui”, e alla fine, inevitabilmente, in modo più o meno tragico lo abbandonano. Marco resiste agli urti emotivi della vita e spende tutte le sue energie per non lasciarsi trascinare via, proprio come quel colibrì che sin da bambino gli hanno affibbiato come soprannome. Marco Carrera è l'eroe moderno: non crede alle superstizioni, sfida sprezzante quelle altrui, eppure ha un disperato bisogno di credere nel destino, di trovare un senso a quello che gli accade. È Marco stesso che, con il lettore, cerca il filo logico della sua vita, quel filo che gli è sempre sfuggito di mano. Lo ricerca nelle “micidiali coincidenze” che, talvolta, è lui stesso a creare; lo ricerca negli oggetti, che spesso parlano più di quanto non abbiano fatto i loro proprietari; lo ricerca nell’idea dell’amore, che racconta (e si racconta) in una serie di lettere lunga una vita. Lo trova, infine? Nei capitoli conclusivi vediamo in un lampo il futuro mitico della nipote Miraijin, in cui Marco proietta il fine ultimo di tutta la sua vita, e quasi non capiamo se è realtà o l'allucinazione di un uomo che ha disperatamente bisogno di trovare qualcosa in cui credere. Copertina:4 Storia:4 Stile:4

Jessica joy_in_the_deep

Salti temporali che si rincorrono dalla prima all’ultima pagina, con anticipazioni che arrivano come frustate e flashback che sembrano comunque inaspettati. La storia di Marco Carrera va avanti e indietro senza sosta, ma il romanzo è ben costruito. La parte della corrispondenza del protagonista con lettere e cartoline è la più autentica e densa: l’ho amata. Il testo è scorrevole, diretto, la storia e la narrazione mi conquistano subito. La vita sgangherata di Marco, apparentemente normale, è appesa letteralmente a un filo. Quel filo così fragile che lo tiene a stento legato alla moglie, alla figlia, alla sua quotidianità. Fino a che tutto sembra crollare. È un libro vero e doloroso. Incasinato forse è la parola che più si avvicina a quel caos di parole, di tormenti e di pensieri che travolge il lettore, ma io lì in mezzo mi sono trovata proprio bene. Il Colibrì è un libro di soprannomi e significati, alla costante ricerca di un senso e di una felicità che sembrano non manifestarsi mai e invece poi in qualche modo si palesano, anche se a singhiozzo, anche se lontani da ciò che ci aspettava. La storia prende una piega inattesa e distante da come la immaginavo, ma pur sempre intensa. Mi ha ammaliato. Magari ero solo ben disposta nell’accoglierla, ma mi ha davvero emozionata e colpita nella sua commovente profondità. È stato un bel viaggio, anzi un volo, ironico, triste, cinico, spietato, ma anche e soprattutto dolce e tenero. Cosa succede nei rapporti interpersonali da cui nasciamo e a cui tendiamo durante tutta la nostra esistenza? E soprattutto perché? Non tutti hanno la fortuna di arrivare a una risposta. Eppure sono queste le domande più faticose. Veronesi ci mostra quelle di Marco e di tutti i personaggi che gli gravitano intorno e noi, pur senza volerlo, ma senza poterlo evitare, siamo portati a interrogarci sulle nostre relazioni e identità. Ogni colibrì cresce prima o poi, ma non tutti hanno il coraggio di spiccare il volo. Copertina: 3 Storia: 4 Stile: 4

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Premessa. In questo articolo non troverete la dicitura romanzo borghese. Non si parlerà del posto che Sandro Veronesi occupa nella cosmologia della letteratura italiana, né di quello del suo nuovo libro Il colibrì. Non si parlerà di quanto il romanzo sia formidabile (lo è), non si parlerà di quanto l’autore sia formidabile (lo è). L’idea è che potete trovare in giro gente più qualificata per farlo (e infatti molti l’hanno già fatto). Ciò che posso fare io, da millennial aspirante scrittore, è stilare una lista delle cose che ho deciso di rubare. Il furto in letteratura è infatti un gesto nobile; quando ci si confronta con i padri diventa anche doveroso. E Veronesi lo si può considerare un padre letterario della mia generazione – anche in senso anagrafico: lui ha sessant’anni, io ne ho ventiquattro. Potrei essere suo figlio.

1. La questione del tempo. La prima cosa che mi è saltata all’occhio di questo romanzo, intanto, è stata la scansione in capitoli brevi. Sfogliandolo, ho notato che andava avanti e indietro nel tempo con una certa disinvoltura, come se ogni scena fosse una pennellata gettata lì (apparentemente) a casaccio – in modo che solo alla fine potevi discostarti e trovare un andamento complessivo. Questa particolare struttura mi ha fatto tornare alla mente l’istante in cui, anni fa, guardando i titoli di coda di 21 grammi mi chiesi appunto se avesse senso scrivere un romanzo in quel modo: cioè prendere una storia lineare, farla esplodere e seminarne i pezzi un po’ qui e un po’ lì: come delle pennellate a casaccio, appunto.

C’è da dire che ero ancora piuttosto a digiuno di letteratura e non sapevo che questa cosa era stata già fatta più e più volte. In ogni caso il romanzo di Veronesi si fionda subito tra gli esempi più efficaci di quella mia intuizione. Ci ricorda che la regola di raccontare seguendo l’ordine degli eventi è solo una delle opzioni possibili: anzi, nel novanta percento dei casi ci sono strategie migliori, che se padroneggiate con maestria consentono di muovere l’emozione del lettore come se fosse una marionetta. La prima cosa che annoto sul taccuino allora è questa: che la letteratura, se ha una sua specificità rispetto a qualsiasi altro strumento narrativo, è proprio quella di poter giocare con il tempo in ogni modo possibile.

2. Lo strumento letterario. Quella che ho appena scritto è una bugia. Mezza bugia. Le specificità della narrazione letteraria sono diverse, oltre alla gestione del tempo – che secondo me rimane comunque la più importante –, e infatti un’altra che Veronesi utilizza a tutto tondo è la mescolanza di forme dello scrivere. Mi riferisco al fatto, cioè, di usare in un romanzo tutto ciò che nella vita è scrittura: lettere, sms, diari, frammenti di appunti, persino l’inventario degli oggetti contenuti nella vecchia casa di famiglia: ogni singolo pezzo di carta che abita le nostre esistenze contribuisce a definirle e ne rappresenta una traccia fondamentale, un consistente documento di prova. Non sarebbe bellissimo prendere tutte le cose scritte che ci riguardano – dalle ricevute fiscali, ai certificati medici, alle canzoni composte a quindici anni – incollarle insieme e dire che quello è il romanzo della nostra vita? Non è il caso de Il colibrì, sia chiaro, però ci va vicino.

3. La questione del patetismo. Come è stato già fatto notare da Alessandro Piperno, il romanzo di Veronesi vorrebbe essere una specie di riscrittura della storia di Giobbe: un personaggio che, anche se non conoscete dettagliatamente le sue vicende, quasi sicuramente ricorderete per la proverbiale pazienza. Anche il povero Marco Carrera ne subisce di tutti i colori, prende mazzate da ogni parte, e alla fine (come ogni protagonista drammaturgicamente efficace che si rispetti) riesce sempre a tirare fuori una infinita forza di volontà, il coraggio di scavalcare le avversità e andare avanti. Leggendo, mi è capitato di avere un po’ di nausea. Certe volte il carico di sofferenza sulle spalle del dottor Carrera era davvero esagerato, ed è risaputo che il dolore nelle storie vada dosato come una spezia: quando è troppo poco annoia, è insufficiente a creare empatia; quando è troppo invece rischia di suscitare patetismo, di ribaltarsi in una forma di comicità non voluta. È come Tom di Tom e Jerry, che prende sprangate in continuazione e nonostante sia in teoria il personaggio più pericoloso, perché ha realisticamente la forza di mangiarsi il topo quando vuole, alla fine fa la parte dello sfigato e a guardarlo non può che venirti da ridere. Questo rischiava di succedere anche a Marco Carrera.

Occorre però una spiegazione. Bisogna tenere a mente che l’allergia al patetismo è una fissazione che abbiamo maturato abbastanza recentemente. Basta pensare alle narrazioni che sono nate e hanno preso maggiormente piede nell’ultimo ventennio. I Simpson, per fare un esempio. Ma anche Il trono di spade. Riuscite a pensare a una sola scena di queste serie che sia totalmente, puramente patetica, nel senso etimologico del termine (deriva dal greco, significava “sofferenza”)? Patetica come i personaggi di Dickens, da David Copperfield a Pip di Grandi speranze, che vivono una vita piena di colpi di scena al ribasso, e nonostante tutto alla fine ce la fanno? No, non vi viene in mente: perché in quelle narrazioni il patetismo è stato filtrato: ogni scena strappalacrime, quando ce ne sono, si conclude necessariamente con qualcuno che rutta o con una battuta. Potete estendere il ragionamento anche alla letteratura, il risultato non cambia: patetismo in Walter Siti? Poco, direi intorno allo zero. In Foster Wallace? A volte un po’ di più, ma in genere meno uno, meno due. Ian McEwan? Non ne parliamo.

Veronesi invece ha scritto un romanzo decisamente patetico, e in questo senso quasi ottocentesco. L’ha scritto bene, naturalmente, e il risultato è che anche se ci viene da prendere in giro Marco Carrera nei momenti in cui fa la parte del cartone animato poi qualcosa dentro la sentiamo spezzarsi. Questo è il motivo, secondo me, per cui questo romanzo – che di per sé non considerereste letteratura commerciale – non ha fatto fatica a posizionarsi abbastanza in alto nella classifica delle vendite. Perché, al di là di tutte le considerazioni sofisticate che si possono fare, il libro arriva direttamente lì, alla pancia, e questo, anche se non vogliamo ammetterlo, fa sempre piacere. Quindi, per il decennio che viene: togliamoci la paura del patetico.

4. La questione dell’ordine. C’è un altro motivo però se un romanzo così complesso riesce a girare bene. E cioè la perfezione formale. La simmetria. Ci sono scrittori postmoderni disordinati – mai provato davvero a leggere Beloved di Toni Morrison?, ecco, mi azzardo a confessare che a me ha irritato un casino – e poi ci sono scrittori postmoderni estremamente ordinati. Julian Barnes, Jonathan Safran Foer. Ogni capitolo è più o meno della stessa lunghezza, ci sono elementi che tornano ciclicamente e le variazioni di tono nella scrittura sono gestite con enorme rigore sistemico, quasi con attenzione chirurgica. È così anche per Il colibrì. I dialoghi tra Marco Carrera e il dott. Corradori, ne sono un ottimo esempio: sebbene possano sembrare a volte un po’ irreali, hanno la precisa funzione di anticipare quello che sta per arrivare: ogni singola pagina successiva serve semplicemente a specificare; questo ingenera in chi legge una curiosità naturale, e devi divorare il romanzo per soddisfarla.

La questione dell’ordine nella struttura di un romanzo è fondamentale: significa fare attenzione al lettore, anche quando si vuole essere sperimentali e complessi. Soprattutto, significa rinunciare a una porzione di autenticità. È del tutto naturale che in una storia rigorosamente architettata e piena di simmetrie ci sia qualcosa che la fa sembrare irreale: perché la vita non è così, è discontinua e piena di irregolarità. Ma non fa niente. Davvero, non fa niente. Siamo ossessionati dal fatto che le narrazioni debbano somigliare alla vita, ma dobbiamo renderci conto che il modo migliore per essere autentici non è necessariamente imitare la vita stessa, e che anzi con la finzione possiamo arrivarci molto più vicino. Il narratore è un ladro di luci, ha il talento di trovare schegge luminose dove nessuno si sognerebbe di cercarle e la capacità di portarle sane e salve in cima, più in alto possibile: in un punto dove tutti, con facilità, siano in grado di vederle e rimanere folgorati.

Recensione di Pierpaolo Moscatello

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In questi ultime settimane non si fa altro che parlare de Il colibrì (368 pagine, 20 euro) di Sandro Veronesi, edito da La nave di Teseo, come di un «manuale di scrittura» (parole grosse!), piuttosto che del libro dell’anno (copyright Corriere della Sera). Colibrì sì o Colibrì no? Come nella trasmissione televisiva Tu si que vales, per quanto mi riguarda è sì. Promosso a pieni voti, seppur senza lode. I motivi sono da ricercare nella sua intensità e nel suo magnetismo capace di tenere il lettore incollato per ore a queste pagine, nonostante una narrazione a “sbalzi temporali” lungo la quale prende corpo la storia del dott. Marco Carrera, la cui vita altro non è se non uno slalom avventuroso tra lutti, amori, perdite e ritrovamenti.

Nel complesso il romanzo ha una struttura accattivante, per quanto non avulso da alcune sbavature. Qua e là qualche descrizione ridondante; taluni avverbi di troppo; persino un paio di carteggi telematici tra il protagonista e la sua amata, Luisa, di dubbia attrattività. Ciò nonostante il libro (pubblicato dopo il pamphlet Cani d’estate) si fa leggere, eccome se si fa leggere. Certi brani, come ad esempio il capitolo finale, godono di un pathos vivido, luccicante, struggente. La storia in cui ci si cala, in cui letteralmente ci si immerge, vivendola e soffrendola nei suoi passaggi più delicati e toccanti, restituisce un cocktail di emozioni difficili da dimenticare.

Per quanto l’intera esperienza di lettura risenta di quell’angoscia e di quell’inquietudine di fondo che alligna in buona parte delle vicissitudini raccontate – i lutti familiari, l’amore platonico con Luisa (una sorta di coitus interruptus), il rapporto mutilato con il fratello Giacomo, la separazione dalla moglie – Veronesi riesce nell’intento di confezionare una svolta catartica proprio con la figura di Miraijin, la nipote di Marco Carrera, destinata a impersonificare un definitivo momento di sintesi dell’intera trama e a sommare in sé quel concentrato di energie che getteranno sul futuro una nuova luce e una nuova fonte di speranza.

Recensione di Alessandro Orofino

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Ho letto “Il colibrì” qualche mese fa, ma in questi giorni così particolari, di difficoltà “emotiva” personale e collettiva, mi è capitato spesso di ripensarci.

Della leggerezza che l’immagine del colibrì evoca, Marco Carrera, protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, ha ben poco: immobile, mentre tutti intorno a lui sembrano muoversi continuamente, si affannano, cambiano, se ne vanno, qualche volta ritornano, altre lo abbandonano per sempre.

E così il colibrì cresce velocemente, catapultato nella vita adulta dai farmaci per l’aspetto fisico, ma soprattutto, emotivamente, dalla amata sorella Irene, suo esatto opposto: mai quieta, mai ferma, alla continua ricerca di qualcosa che non trova, sempre in precario equilibrio sull’orlo di un baratro in cui le diventa inevitabile precipitare. Ma così non è per Marco, che è sempre lì, pesante, saldo: ma quanta fatica gli costa? Quanto velocemente deve sbattere le ali questo uccellino, per rimanere fermo mentre attraversa la vita propria e si lascia attraversare da quella altrui senza soccombere, trovando, anzi, la forza per essere “motore” della propria rinascita, una volta capito qual è il suo reale “scopo”. Marco lo scopre improvvisamente e vi si dedica con tutto se stesso, superando tutte le difficoltà e tutti i colpi, anche quelli più duri, che la vita gli infligge, senza mai lasciarsi abbattere, rimanendo lì, a mezz’aria, apparentemente immutato.

Un romanzo che tanto ha da insegnarci sulla forza necessaria per guardare dentro se stessi e ripartire senza rinnegarci, senza cedere al vittimismo, anche quando tutto sembra crollarci addosso. Una storia che parla in modo delicato e potente di “resilienza”, termine quantomai usato e abusato in questi giorni.

 

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Conosci l'autore

Sandro Veronesi

1959, Firenze

Scrittore italiano, fratello del regista Giovanni Veronesi. Ha compiuto i suoi studi nel campo dell'architettura, optando definitivamente per la scrittura a 29 anni. Risale infatti al 1988 il suo primo libro Per dove parte questo treno allegro. Con Gli sfiorati Veronesi inizia a rivelarsi come uno scrittore fantasioso e raffinato. Nel 1992 esce Cronache italiane, raccolta di articoli apparsi per la maggior parte sul supplemento domenicale de il Manifesto negli anni tra il 1988 e il 1991.  Dopo lo studio sulla pena di morte nel mondo (Occhio per occhio), Veronesi scrive Venite, venite B 52 (vincitore del Premio Fiesole nel 1996), con cui si allontana fatalmente dalla narrativa della tradizione italiana, avvicinandosi a certi autori americani della cultura psichedelica, come Thomas...

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