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La conoscenza, si sa, è un bene molto particolare: essa non si consuma nel corso del suo utilizzo, anzi, quanto più viene utilizzata si arricchisce e si approfondisce; solo se è trascurata si perde. Non è un bene quantitativamente limitato: se c'è chi ne possiede molta, non significa che altri ne debbano essere privi. Anzi, l'istruzione, la formazione, la diffusione delle conoscenze è una delle condizioni per costituire una società più giusta, più uguale, in cui gli individui possono interagire in vari campi su livelli di comprensione e di collaborazione migliori e più produttivi.
Tutto ciò per quanto riguarda la conoscenza: ma gli strumenti che permettono la ricerca e la trasmissione del sapere sono sicuramente dominati dalle leggi dell'economia: lavoro, investimenti e tecnologie. Nessuno nega, quindi, che sia giusto che chi produce conoscenza possa ricavare un guadagno dal proprio operato. In questo ambito il vantaggio di un individuo può tradursi nello svantaggio di altri: per questo nei secoli passati, soprattutto laddove la scrittura è diventata la maniera quasi esclusiva della trasmissione delle conoscenze, si è riconosciuto il diritto d'autore e il possesso di risorse economiche ha segnato la possibilità di un effettivo approccio alla conoscenza e alla fruizione dei beni culturali. Oggi la situazione potrebbe in parte mutare in senso positivo: le nuove tecnologie informatiche, soprattutto attraverso le modalità dell'open source e dell'open content tipiche del web 2.0, possono ridurre il condizionamento economico non solo nella fase della fruizione dei beni culturali, ma in una certa misura anche in quella della loro produzione.
Ciò avviene però in maniera molto limitata, anzi siamo in presenza di un fenomeno opposto perché, come denuncia Nancy Kranich in un saggio presente in questo volume, la linea di tendenza non sembra essere quella di una messa in comune gratis o a basso costo (almeno per le istituzioni pubbliche come biblioteche, scuole e università) del bene della conoscenza, ma "la tecnologia digitale rende possibili nuove forme di recinzione delle informazioni. Negli ultimi dieci anni i fornitori di informazioni hanno introdotto nuovi metodi di controllo che limitano i diritti tradizionali del pubblico a utilizzare, condividere e riprodurre informazioni e idee. Queste tecnologie (
) minacciano di svilire il dibattito politico, la ricerca scientifica, la libertà di parola e la creatività necessarie per una democrazia sana". Queste operazioni vengono interpretate da Paolo Ferri, autore di una stimolante introduzione all'edizione italiana di questo volume, come nuove enclosures, che, a somiglianza delle antiche recinzioni dei campi nell'Inghilterra del XVI secolo, trasformano in proprietà privata ciò andrebbe considerato bene pubblico. Il libro in questione, opera collettiva, si propone di denunciare e cercare di contrastare questa tendenza: i numerosi interventi non sono sempre molto omogenei (alcuni espongono concetti generali, altri si soffermano su situazioni americane fin troppo specifiche), ma il filo rosso che li unifica è ben visibile ed è il concetto che "il paradigma dei beni comuni (
) si rivolge primariamente (
) a norme e regole sociali e a meccanismi legali che permettono alle persone di condividere la proprietà e il controllo delle risorse". (David Bollier). Obiettivo che non costituisce una semplice petizione di principio, ma una necessità, in quanto la battaglia per il controllo delle informazioni e delle idee ha come posta in gioco la partecipazione pubblica e l'identità sociale dell'individuo come cittadino responsabile, non come consumatore eterodiretto.
Per questo insieme di ragioni il problema della conoscenza come bene comune riguarda direttamente la scuola. Infatti, la libertà di accesso alle informazioni della rete non condizionato da costi esorbitanti è e sarà sempre più una pre-condizione per garantire a tutti un'effettiva uguaglianza nel processo formativo: scuole e università che non potessero accedere a strumenti del sapere sempre più essenziali sarebbero di fatto sottoposte a una grave discriminazione. Tuttavia l'importanza della tutela e dell'arricchimento del carattere comune del sapere non va considerata solo riguardo alla trasmissione della conoscenza, ma soprattutto in relazione all'importanza pedagogica della sua produzione: infatti, la responsabilizzazione connessa con la peer production, processo mediante il quale molti individui contribuiscono a uno sforzo collettivo volto a produrre un'unità di informazione o di cultura, può essere un potente stimolo per sviluppare un vero senso civico negli adolescenti, che attraverso la loro attività possono percepire di essere una risorsa per sé e per gli altri e non, come troppe volte si sentono dire, un problema di difficile soluzione per l'insieme della società. E rendere responsabile un adolescente significa creare le condizioni per avere già da oggi un buon cittadino.
Naturalmente, perché tutto ciò sia possibile è necessario un intervento adeguato da parte del potere pubblico: sul piano legislativo per rimuovere gli ostacoli, sul piano delle scelte di politica economica per mettere a disposizione risorse che rendano remunerativo, senza ricorrere a enclosures, il lavoro svolto da quegli autori ed editori che forniscono e distribuiscono i contenuti relativi alla formazione e alla ricerca scientifica.
Vincenzo Viola
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