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C'è un passo della Genesi in cui si racconta che Noè, dopo il Diluvio Universale, piantò una vigna, con i cui frutti produsse un nettare (il vino) che bevve fino ad ubriacarsi. Questa bevanda, al di là di quello che dice la Bibbia, ha origini antichissime e sembrerebbe risalire addirittura al Neolitico; l'unica certezza, però, è che è sempre stata una fedele e ambita compagna dell'uomo, oggetto anche di simbolismi, come nel caso del vino dell'ultima cena di Gesù Cristo; peraltro questo nettare è sempre stato considerato come una bevanda d'evasione, come un prodotto alimentare che, per il suo tasso alcoolico, induce alla spensieratezza, disinibisce, insomma consente di aprirsi totalente, infrangendo quei vincoli di naturale ritrosia e riservatezza presenti, in maggior o minor misura, in tutti gli uomini. Ed è talmento importante dall'aver costituito e dal costituire ancor oggi uno dei temi preferiti dai poeti, così che in questo contesto non stupisce questa silloge di Maria Teresa Santalucia Scibona, di certo più estimatrice che gran bevitrice di vini. Fra l'altro il fatto di vivere in Toscana, regione di nobili vitigni, ha indubbiamente il suo peso e pertanto l'assunzione della bevanda assume il vero e proprio significato dell'adempimento di una tradizione in essere da millenni. Nel sorseggiare il nettare, fra un tempo e l'altro di accostamento alle labbra del calice, si consuma un rito di silenzio, di meditazione, che non solo apre se stessi gli altri, ma che spalanca quella porta che tenacemente teniamo chiusa e che cela il nostro intimo a noi stessi. Fra un vino e l'altro, che non si assaggia, ma si legge, c'è tutto il tempo per riflettere ed ecco allora che parlare di vino da meditazione appare proprio pertinente, ma tutto è lieve, il cuore verso verso dopo verso si rasserena e giunti alla fine viene istintivo l'alzare un immaginario calice e sussurrare a fior di labbra un "prosit" di soddisfazione.
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