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Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero - Stanislas Dehaene - copertina
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Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero - Stanislas Dehaene - copertina
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Descrizione


Da dove provengono e come si governano i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri sogni? La mente umana è davvero così intelligente da comprendere la propria stessa esistenza? Per millenni filosofi e scienziati sono stati disorientati dall'enigma dell'esperienza cosciente. Ma Stanislas Dehaene ci invita nel suo laboratorio per farci constatare come sia oggi possibile analizzare le basi biologiche della coscienza, usando le migliori teorie disponibili, a cominciare dall'evoluzionismo neodarwiniano, ma anche tutti gli apparati di ricerca per il cervello, dalla MRI funzionale alla elettroencefalografia. L'autore mostra come si possano determinare i marcatori fisiologici che rivelano massicce variazioni quando un soggetto diventa consapevole di un'immagine visiva, oppure di una parola o di un suono, e mira a scandagliare "firme della coscienza" persino nel buio del coma. Una nuova disciplina scientifica potrà giovare ai pazienti paralizzati ma coscienti o a coloro che sono caduti nel cosiddetto stato vegetativo? La risposta, dice Dehaene, "è un esitante e incerto sì". Ma nella prospettiva di un serio illuminismo scientifico, possiamo scommettere che le neurotecnologie del futuro cambieranno radicalmente il trattamento clinico dei disturbi della coscienza.
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Dettagli

2014
22 ottobre 2014
442 p., ill. , Brossura
9788860307019

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Pietro Smusi
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Il testo è l'unico che io abbia letto sull'argomento in lingua italiana che integra gli studi sui correlati della coscienza in senso clinico con quelli più sperimentali che invece si svolgono su persone o animali sani e che riguardano lo studio della rivalità binoculare, percetti bistabili e esperimenti sul priming. Oltre a proporre una rassegna degli studi sperimentali l'autore propone anche una teoria sulla coscienza mettendo insieme gli studi sperimentali di cui discute, ed è la teoria dello spazio di lavoro globale neuronale. Questa teoria sostiene che un contenuto d'esperienza diventa cosciente quando diventa accessibile in modo globale al cervello, e cioè quando viene distribuito lungo una serie di neuroni molto grandi che "circumnavigano" la corteccia cerebrale a partire dalle aree prefrontali. La teoria non ambisce esclusivamente a trovare i correlati neurali della coscienza, ma a trovarne delle vere e proprie firme: delle caratteristiche che la individuano in modo univoco come l'ignizione globale, la p300, l'attività diffusa e a cascata. Non mancano anche modelli simulati al computer e alcune considerazioni metodologiche sullo studio della coscienza da parte delle scienze cognitive (sull'attendibilità dell'introspezione). Assieme ai testi di Giulio Tononi è un libro fondamentale da leggere per chi si accinge ad iniziare uno studio scientifico della coscienza, dando un buon peso anche alle evidenze sperimentali non cliniche.

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Voce della critica

  Un secolo fa la psicoanalisi muoveva alla neurologia e alla psichiatria dell'epoca una sfida senza precedenti: mostrare che l'influenza dell'inconscio sulla nostra vita è più potente della coscienza. Oggi, che la psicoanalisi è alle prese con un bilancio di un'idea geniale e ambigua, l'inconscio, che designa insieme il normale e il patologico (inconscia la nevrosi e inconscia l'origine dei sogni), a schema invertito, le neuroscienze sfidano la psicoanalisi con modelli sperimentali e clinici che stanno progressivamente chiarendo aspetti cruciali del cervello umano. Doppiato il capo Horn del Novecento, le neuroscienze navigano a vele spiegate verso l'arcipelago inesplorato della coscienza. Eppure, fino a mezzo secolo fa non erano in molti a scommettere sulla possibilità di giungere in prossimità dei suoi arcana imperii. Una sfida impossibile, si diceva, roba da visionari, da cercatori di essenze. Ma, lontano dalle luci della ribalta, una storia potente e silenziosa, fatta di rigorose ricerche teoriche e sperimentali, procedeva parallela ai paradigmi dominanti (la psicoanalisi, il comportamentismo e più tardi il cognitivismo), tenendo testa al complotto intellettuale che l'aveva posta ai margini del dibattito culturale e accademico. Quella formidabile stagione che vide protagonisti personalità come Hughlings Jackson, William James, Charles Sherrington, Henry Ey, Wilder Penfield, Giuseppe Moruzzi, John Eccles e tanti altri, mostrò come la scienza proceda certo per passi piccoli e sicuri, ma soprattutto per grandi domande. Quanta strada fatta da allora. La scoperta di nuovi metodi di indagine del cervello (neuroimaging funzionale) ha avuto un impatto, sulle neuroscienze, simile a quello che ebbe il telescopio di Galileo nel radere al suolo un millenario edificio di saperi e credenze. Oggi, la possibilità di svelare l'enigma della coscienza e di comprendere e curare molte malattie neurologiche e psichiatriche non è più solo una speranza. Ma qual è lo stato dell'arte? Domande, antiche e nuove, attendono risposta. Ad esempio, quale è il meccanismo che unisce un'entità fisica ad un'altra immateriale come la soggettività di una persona? Come nasce la coscienza, e come si inserisce nell'ordine naturale delle cose? È di esclusivo dominio dell'uomo o anche di altre forme viventi? L'incontro tra la mente umana e computer di vertiginosa potenza ci consentirà di simularne le funzioni? Una domanda, però, è più urgente di tutte le altre, e ha a che fare con il futuro stesso della ricerca. Può un solo termine, la coscienza, appunto, descrivere fenomeni così diversi e distanti tra loro quali il coma o lo stato vegetativo di un paziente; la sensibilità ambientale (coscienza ecologica); aspetti morali, "la voce della coscienza" (coscienza morale); l'attività dell'Io (coscienza narrativa) e così via? Non è forse compito fondamentale della scienza demarcare rigorosamente, innanzitutto sul piano linguistico e concettuale, il proprio oggetto di ricerca? Molte delle difficoltà che abbiamo davanti, la confusione concettuale, l'incerta formulazione dei problemi e dei programmi di ricerca, l'interpretazione dei fatti, derivano proprio da qui. Ad alcune di queste domande, prova a rispondere Stanislas Dehaene. L'autore chiarisce, preliminarmente, che i suoi argomenti sono tutti fondati su evidenze sperimentali. Le metodiche attuali, sostiene, ben più sottili dell'imaging cerebrale tradizionale, ci mettono in condizione non solo di distinguere attività fisiologiche aspecifiche e dal significato incerto (il flusso sanguigno e altre dinamiche metaboliche) da segnali che indicano sensazioni, percezioni, pensiero; ma anche di ricostruire precise configurazioni (in seguito alla sua esposizione a parole, immagini o suoni) dell'attività cerebrale. Queste "firme", come egli le definisce, sarebbero i correlati biologici della consapevolezza. Dehane non si discosta dall'uso mainstream dei termini coscienza e consapevolezza. Utilizzandoli, però, quasi come sinonimi, insinua nel lettore, senza volerlo, un dubbio sul loro effettivo significato, mettendone a nudo il dramma concettuale sottostante e l'urgenza di un'innovazione linguistica. Di più: il suo auspicio per la nascita di una "scienza della consapevolezza" rende ancor più evidente l'insufficienza della rappresentazione dell'Io consapevole come spettatore di un immaginifico teatro filosofico. Ma che cos'è la consapevolezza? Per quel che ne sappiamo è l'espressione elevata di un complesso di distinti caratteri materiali e immateriali che, sin dalle prime fasi dello sviluppo, in un processo che va dal corpo al cervello e dal cervello a se stesso, preparano il terreno all'emergere del sé. Il suo ordinamento non è rigidamente gerarchico, ma sostenuto da molteplici livelli orizzontali, ognuno dei quali è in un continuum strutturale e funzionale con la nostra capacità autoriflessiva su norme e valori, azioni e decisioni, libertà e necessità. Ora, se le cose stanno così, è sufficiente lo schema che sin qui ha opposto la consapevolezza all'inconsapevolezza, come il giorno alla notte? No. Non solo non si oppongono, ma sono in una relazione di co-implicazione profonda. Finanche di identificazione. Nel cuore della consapevolezza fluttuano ombre, rifrazioni fantastiche, repentine illuminazioni che ci restituiscono l'illusione che a decidere sia l'Io, quando invece si tratta di movimenti elusivi, inaccessibili alla nostra luminosa razionalità. Vi è molta consapevolezza nell'inconsapevolezza e viceversa. La consapevolezza è solo la punta di un iceberg di gigantesche proporzioni. Al di sotto della superficie una sovranità invisibile guida la nostra vita. Al pensiero inconsapevole collaborano regioni diverse del cervello. Il loro enorme lavoro di selezione e filtro di innumerevoli input sensoriali, interni ed esterni, permette solo a una piccolissima parte di loro di affiorare alla consapevolezza. Le prove? Ammettiamolo, non sono molte. Sappiamo, ad esempio, che ogni evento mentale, finanche il più astratto, è correlato ad eventi cerebrali (Dehane dice: "Ogni stato della mente corrisponde a uno stato del cervello"); poi, che lesioni di singole aree cerebrali provocano la perdita (o il deficit) di alcune facoltà della mente a esse correlate; inoltre, che la consapevolezza ci ha messo in condizione di comprendere il nostro comportamento e di adeguarlo alle situazioni più diverse; infine, che essa ci mette in condizione di produrre ragionevolissime spiegazioni sulla base dell'esperienza, di distinguere cosa è consapevole da cosa non lo è. Ma ecco, prepotenti, altre domande. Per quanto tempo nella nostra vita siamo davvero consapevoli delle nostre azioni? Gli psicologi della decisione dicono che la luce della consapevolezza illumina solo a tratti le nostre azioni e che, per gran parte della nostra vita diurna, siamo assenti a noi stessi: proprio nel senso del proverbio cinese: "Alla base del faro non c'è luce". Un esempio? Si pensi a quella presente assenza che ci ghermisce in alcuni lunghi viaggi in auto, quando ogni cosa scorre sotto i nostri occhi: paesaggi di ogni tipo, case, mezzi in direzione opposta, nuvole dalle forme bizzarre e così via. Guidiamo per chilometri, assorti nei nostri pensieri. Siamo puro, inconsapevole movimento. Solo più tardi, sorpresi, ci accorgiamo di aver fatto lunghi tratti di strada, senza essercene accorti. Proprio così. Senza essercene accorti, abbiamo affrontato tornanti difficili, evitato infrazioni, finanche prevenuto incidenti. Eravamo consapevoli o inconsapevoli? Forse, consapevoli senza accorgercene? Ma cosa vuol dire poi "senza accorgercene"? È chiaro che senza una memoria involontaria che imprima una direzione ai nostri automatismi tutto questo sarebbe impossibile. La nostra capacità di elaborare informazioni è molto limitata. Ma la registrazione, da sola, non basta. Come non basta tutta l'attenzione possibile per una piena consapevolezza delle cose e di noi stessi. Al massimo strapperemmo frammenti di consapevolezza al buio dell'inconsapevolezza. Forse diverremmo finanche consapevoli di non essere consapevoli. Ma continueremmo a ignorare di essere in un punto cieco, in una zona inaccessibile al pensiero. La consapevolezza non è un monolite. È fatta da molteplici livelli, da flussi e processi che ignorano i termini che usiamo per autodescriverci: Io, sé, soggetto. In un singolare ordine spontaneo la tensione verso l'unità si alterna a un'altra verso la molteplicità, intervenendo nelle azioni in corso per facilitarne il successo; estraendo i dati salienti dalle informazioni disponibili per decisioni migliori; analizzando le variabili in gioco nella scelta; cercando soluzioni efficaci a certi problemi; elaborando giudizi diversi e nuovi, derivandone infine le conseguenze. È evidente che la fenomenologia di questa immane quantità di processi riapre la vexata quaestio dell'unità-molteplicità della consapevolezza e di come essa racchiuda l'insieme delle immagini e delle emozioni legate al corpo. Come interpreteremo tutti i dati che abbiamo (e avremo) a disposizione? Con l'enorme messe delle evidenze empiriche prodotte ogni giorno è quasi impossibile prevedere dove saremo tra qualche decennio. Più facile immaginare come era l'universo prima del big bang. Certo, però, catalogare non vuol dire aver capito come e perché un sistema funziona. Ma questa è già un'altra storia. Tutta da scrivere.  

 

Mauro Maldonato

 

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