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La costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare - Alessandro Pizzorusso - copertina
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Descrizione


La Costituzione del 1947, che regge il nostro attuale ordinamento, si presenta come la sintesi delle idee politiche intorno alle quali lo Stato italiano si è formato nel corso del Risorgimento. Secondo Pizzorusso, considerare superata la Costituzione del 1947 significherebbe cancellare il principale momento unificante della nostra storia travagliata. Pizzorusso, in questo volume, non esclude comunque un'ampia revisione della nostra Costituzione, a partire da un nuovo equilibrio dei rapporti tra esecutivo e legislativo e avanza una serie di proposte concrete: le regole per l'incompatibiltà tra incarichi di governo e incarichi di partito, il ridimensionamento dell'istituto del decreto legge, il consolidamento del sistema elettorale uninominale.
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Dettagli

1996
1 gennaio 1997
XIII-162 p.
9788806139674

Voce della critica

SARTORI, GIOVANNI, Ingegneria costituzionale comparata. Strutture, incentivi ed esiti

PIZZORUSSO, ALESSANDRO, La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare

NEPPI MODONA, GUIDO (A CURA DI), Stato della Costituzione. Principi, regole, equilibri. Le ragioni della storia, i compiti di oggi

FISICHELLA, DOMENICO, Elogio della monarchia
recensione di Tuccari, F., L'Indice 1996, n. 4

Fra poco più di tre anni la retorica della "Grande Riforma" potrà celebrare il suo primo ventennale. Il famoso articolo dell'"Avanti!" in cui Bettino Craxi ne aveva invocato la necessità, sottolineando come la Costituzione avesse ormai subìto "il logorio del tempo", si intitolava "Ottava Legislatura" ed era datato 28 settembre 1979. Da allora, l'ossessione della "Grande Riforma" non ha più cessato di agitare il teatro della politica italiana: da ultimo, al crepuscolo della presente legislatura, con la breve ma intensa girandola di ipotesi di revisione costituzionale definite, contrattate e poi surgelate - tra alta accademia e bassa cucina elettorale - dai due poli multipolari del nostro attuale sistema politico.
Nel frattempo, per effetto dei terremoti giudiziari, referendari ed elettorali che hanno scosso il paese negli anni novanta, i protagonisti e gli scenari del dibattito sulla "Grande Riforma" sono mutati. Il "traghettamento" dell'ex Msi e le moltiplicazioni mediatiche di certo revisionismo storico hanno reso sempre più problematica l'equazione di democrazia e antifascismo che sta alla base della nostra Costituzione. E allo stesso modo, le riforme elettorali del 1993, modificando in senso maggioritario le dinamiche del sistema politico italiano, hanno posto all'ordine del giorno il tema delle garanzie previste dall'articolo 138 in materia di revisione costituzionale e quello di una riforma strutturale della forma di governo. In ultimo, vi è il problema della disciplina dei grandi mezzi di comunicazione di massa.Un problema, questo, che si pone con drammatica urgenza in un paese con un imprenditore televisivo alla ribalta politica, con una sfrenata democrazia referendaria e, ancora, con una procedura di revisione costituzionale che non è attrezzata per resistere ai cortocircuiti che la videocrazia e l'istituto del referendum possono in qualsiasi momento produrre.
Contribuiscono a fare il punto su questo complicato insieme di problemi alcuni importanti libri pubblicati di recente. Innanzitutto il volume "Stato della Costituzione", curato da Guido Neppi Modona e scritto a più mani, oltre che dallo stesso curatore, da sette autorevoli costituzionalisti: Alfonso Di Giovine, Mario Dogliani, Leopoldo Elia, Massimo Luciani, Francesco Pizzetti, Stefano Sicardi e Gustavo Zagrebelsky. Organizzato nella forma di un "commentario" ai 139 articoli della Costituzione, il libro ha diversi pregi. In primo luogo, quello di tenere in buon equilibrio un taglio informativo-divulgativo con le asprezze specialistiche della materia trattata. A ciò si deve aggiungere la scelta felice di legare all'analisi teorico-giuridica dei principi e dei meccanismi costituzionali una riflessione sulle ragioni storico-politiche che operarono nel corso del processo costituente e sulle prospettive possibili di una futura riforma. È proprio in relazione a tali prospettive, infine, che gli autori fanno spesso ricorso agli strumenti dell'analisi comparata, come accade ad esempio, seppure in estrema sintesi, in relazione a temi decisivi quali i sistemi elettorali, i sistemi di partito e le forme di governo.
È sempre di un giurista il volume "La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare". In esso Alessandro Pizzorusso ricostruisce innanzitutto le ragioni che hanno reso la Costituzione dapprima inoperante e poi pressoché impossibile da riformare. Tra le questioni che l'autore ritiene decisive nella crisi attuale, la prima è, più in generale, la questione stessa della Costituzione la quale, se necessita di rilevanti modifiche (tra l'altro in relazione alle nuove leggi elettorali e al processo di integrazione europea), può e deve rimanere il patto fondamentale della nostra vita pubblica: non solo per il complesso dei valori di cui essa si fa garante, ma anche perché rappresenta il frutto dell'"unico vero momento costituente" della storia italiana (un tema, questo, a cui Paolo Pombeni ha dedicato gran parte del suo denso libro su "La costituente. Un problema storico-politico", Il Mulino, Bologna 1995, pp. 170, Lit 18.000). Pizzorusso traccia un articolato quadro di ipotesi di riforme relative alla forma di governo, alle regole di democrazia e di trasparenza che dovrebbero informare la vita dei partiti, alle leggi elettorali, alla disciplina dei referendum, ai meccanismi della produzione normativa, agli organi di garanzia, al sistema giudiziario e alle autonomie locali. Una discussione a tutto campo, insomma, costruita a sua volta su due punti insindacabili: il rifiuto di ogni ipotesi di "Assemblea costituente", che significherebbe semplicemente una "rottura" della Costituzione vigente; e una radicale "risoluzione della questione della televisione", da realizzarsi prima che il paese affronti le riforme costituzionali di cui ha oggettivamente bisogno. Pena quasi certa: "un rimedio peggiore del male".
Ai temi della "video-politica" e della "video-democrazia", del progressivo e pericoloso arretrare dell'homo sapiens di fronte all'homo videns, Giovanni Sartori ha dedicato negli anni passati pagine di grande interesse. E difatti essi ritornano - seppure in modo marginale e a dimostrazione di quanto sia difficile la "buona politica" alle soglie del terzo millennio - nel suo ultimo volume sull'"Ingegneria costituzionale comparata". Pur non essendo dedicato alla crisi italiana, questo libro offre ai nostri aspiranti riformatori una messe ricchissima di modelli, riflessioni, suggerimenti e avvertenze. Le prime due sezioni del lavoro sono infatti dedicate al tema dei sistemi elettorali e a un confronto tra sistemi parlamentari, presidenziali e semipresidenziali: vale a dire alle due grandi questioni su cui si vanno giocando le prospettive della "Grande Riforma". Solo che tali temi sono ridiscussi sulla scala, per l'appunto comparata, di un'esperienza planetaria. "Quale è meglio?", si chiede alla fine Sartori. La sua risposta è netta: da un lato, i sistemi elettorali a doppio turno, che permettono all'elettore di coniugare un "voto sincero" con un "voto strategico" e che rappresentano in ogni caso la soluzione più ragionevole per chi abbandoni il proporzionale per inoltrarsi verso i lidi del maggioritario; dall'altro lato i sistemi semipresidenziali, sul modello francese, che costituiscono, se non i sistemi "migliori", senza dubbio quelli "più applicabili". La terza e ultima sezione del libro è in gran parte riservata alla proposta del "presidenzialismo alternante", a cui Sartori aveva già dedicato, nel 1992, una parte del suo "Seconda Repubblica? Sì, ma bene", e che suscitò allora un vivace dibattito.
Qui merita di essere sottolineato un dato più generale. Nell'"Ingegneria" si legge che "le costituzioni sono qualcosa di simile a macchine o meccanismi che devono funzionare" e che "devono essere concepite e costruite come strutture basate su incentivi e castighi". È questa, in ultima analisi, la chiave del progetto del "presidenzialismo alternante": il suo essere per l'appunto una struttura fondata sull'"incentivo" del parlamento a ben funzionare a fronte del "castigo" di una possibile alternanza presidenziale. Rimane peraltro irrisolto un ulteriore ma decisivo problema: chi dovrebbe stabilire premi e castighi? Sulla base di quale legittimità si può ricostruire una nuova legalità costituzionale? Insomma: chi può proporsi oggi, e in qual modo, come ingegnere costituzionale?
Più in generale: come si può garantire che le dinamiche particolaristiche e conflittuali che dividono i gruppi politici, d'interesse e di opinione delle moderne società democratiche producano, o quantomeno presuppongano, una sfera superiore, super partes, di interesse generale che preservi lo Stato dalla minaccia strutturale della sua disintegrazione? A questo interrogativo offre una risposta "impopolare" e "inattuale" l'"Elogio della monarchia" di Domenico Fisichella, attivamente impegnato in questi ultimi mesi - vale la pena di ricordarlo - nella definizione di una possibile bozza di riforma della Costituzione. Nella monarchia ereditaria, scrive Fisichella, l'interesse privato del re consiste nel "perseguimento dell'interesse pubblico", perché è dai destini di questo secondo interesse che dipende per il sovrano la possibilità di mantenere la corona per sé e per i suoi discendenti. Inoltre la successione ereditaria sottrae il vertice dello Stato al conflitto degli interessi particolaristici: siano essi basati sul numero, sulla ricchezza o ancora (parole di Fisichella!) sulla "pressione
massmediale". Certo, il re "particolaristico" è sempre possibile, ma nella democrazia repubblicana il vizio è proprio del sistema e non solo delle singole persone.
Attorno a questi due fondamentali argomenti l'autore sviluppa il resto dell'"Elogio": criticando la nozione di sovranità popolare, disegnando società dominate da "oligarchie" particolaristiche e confliggenti, evocando l'inquietante "trilemma tra dissoluzione anarchica, degenerazione oligarchica e rovesciamento dittatoriale esplicito della democrazia repubblicana", individuando nella monarchia un efficace baluardo della libertà e un punto di riferimento per nuove "aristocrazie" votate all'interesse generale. Tutti argomenti molto "impopolari" e nello stesso tempo dotati, almeno fino a un certo punto, di una qualche solidità teorica.Anche se spesso drasticamente smentiti dalla storia e dai fatti.
Torniamo allo Statuto, dunque, come s'intitolava il celebre articolo che Sidney Sonnino diede alle stampe nel 1897 deplorando le degenerazioni del parlamentarismo? No, grazie. Ammesso e non concesso che possano davvero costituire una risposta tecnicamente efficace ad alcune delle difficoltà della buona politica, resta il fatto che le monarchie, ancor più delle costituzioni, non si possono "progettare". E tanto meno "riprogettare", come Fisichella sembra suggerire quando parla del "diritto" di Casa Savoia "a proporsi come rinnovato vertice istituzionale dello Stato nazionale". Rimane poi l'articolo 139 della Costituzione, che recita lapidario: "La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale".

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