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Luis Sepúlveda ama il suo Paese, gli uomini e le donne del Cile e per questo scrive di loro e dei giovani cileni, ostinatamente impegnati a conquistare felicità e giustizia. In questo nuovo libro, lo scrittore cileno riparte dal terribile 11 settembre 1973 a Santiago del Cile, quando Pinochet e gli altri tre ufficiali che comandavano la marina, le forze aeree e i Carabineros, dichiararono guerra al marxismo "lininismo" (così lo chiamavano) e con quella scusa cominciarono ad assassinare, torturare, sequestrare persone. Razziarono i beni di chi cadeva nelle loro mani, i morti e i desaparecidos furono a migliaia. Sedici anni dopo, la Corte suprema di giustizia del Cile ha ritenuto, con sentenza assolutoria, che quei delitti non sussistessero.
Da queste premesse muove l'indignazione che anima questa nuova, intensa raccolta di scritti di Luis Sepúlveda, autentico j'accuse contro il regime dell'ex dittatore Pinochet. Il grande narratore se la prende anche con chi (come lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa) ha giudicato positivamente come "neoliberista" il modello economico imposto dai militari, non rendendosi conto, invece, che quel regime non faceva altro che legalizzare le ruberie. La tattica viene descritta: Pinochet dava ordine di assassinare qualcuno, solitamente di sinistra, che avesse un grande appezzamento di terreno edificabile. La terra passava per qualche giorno allo Stato cileno, poi veniva donata all'ente diretto da Lucia Hiriarte in Pinochet, moglie del dittatore. L'esercito vi costruiva sopra centinaia di alloggi, che poi venivano rivenduti ai cileni. E i profitti scomparivano nei conti correnti dei Pinochet a Miami, Gibilterra, in Svizzera. Altro che libero-scambisti, osserva Sepúlveda, questi erano i "ladri cileni", il clan che ha tenuto in scacco il Paese andino per sedici lunghi anni.
Sepúlveda in questo libro non parla solo di Cile, si scaglia anche contro le coperture fornite dai Paesi occidentali ai dittatori. Se la prende con le guerre scatenate dall'Inghilterra di Blair e dall'amministrazione di G. W. Bush, con i politici e i premier dell'Occidente ossessionati dall'idea di "andare verso il futuro". A quella visione, Sepúlveda oppone "la solidità di un presente libero dalle infamie del passato". Perché è convinto che "i morti sono fastidiosi; il loro ricordo è come un sassolino nella scarpa: impedisce di andare verso il futuro".
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