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Il riproporsi aspro, ancora una volta, della crisi italiana della Giustizia (le istituzioni, la gestione, i regolamenti, l'ideologia) riporta in primo piano questo libro d'un autore che, nel mondo del diritto, ci vive quotidianamente ma più come arbitro e garante che non come protagonista di polemiche o di riletture critiche. Tuttavia la provocatoria allusività beccariana del titolo chiarisce da subito quale sia lo spirito che ha mosso Bassetti a questo lavoro: promuovere una seria ridefinizione del problema carcerario, non sottraendosi al dibattito che su questo problema infiamma periodicamente le cronache giudiziarie ma portando quel dibattito su un piano di forte dignità "etica" e "politica", con il convincimento che una discussione approfondita del rapporto tra il valore della pena e il diritto dello Stato alla punizione travalichi le mura del carcere e tocchi nuclei vitali della costruzione d'un paese. Bassetti divide il suo percorso in tre moduli: la pena "pensata", che è quella vista dai filosofi, Kant primo tra molti; la pena "applicata", che è quella che i governanti decidono con le formulazioni legislative a difesa di un ordine costituito; e la pena "vissuta", che è quella subita dai detenuti all'interno di un'istituzione totale dove spesso colpa e recupero sono teoremi astratti d'una condizione senza giustificazioni possibili (e quella terza parte del volume è un lungo racconto di monologhi in presa diretta, testimonianze anonime che l'autore ha potuto registrare visitando con il suo taccuino molti carceri d'Italia). La tesi di questo interessante volume non ha soluzioni precostituite, né progetti politici da raccomandare: soltanto affida alla coscienza collettiva la cognizione d'un dolore - ma ideologico, non fisico - che le sbarre segregano dalla nostra vista e che poi è, però, la denuncia, inquietante, insopprimibile, d'un malessere reale delle società oggi.
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