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Anno edizione: 2017
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La vicenda di don Gioanin Castelli, che rinuncia a curare le anime dei lezzenesi per curare invece gli interessi della tessitura di famiglia dopo aver concupito la bella ed atletica Carmen, è più simile a quella de “Il prete bello” di Goffredo Parise che a quella del “Diario di un curato di campagna” di Georges Bernanos da cui, peraltro, lo stesso Gianni Clerici dice di aver tratto l’idea del romanzo. Tuttavia, se Parise usa la chiave del grottesco per dipingere episodi, situazioni e personaggi della sua storia, Clerici fa entrare don Gioanin Castelli nel microcosmo lezzenese, così distante dalla Como di fine Anni Quaranta e così estraneo ai centri di potere come l’arcivescovado, utilizzando un grimaldello social-religioso: compito del curato è quello di giudicare secondo il Vangelo dove lo “sfroso” (il contrabbando) non è in alcun modo contemplato come peccato. Partendo da questo assunto, il curato lezzenese racconta la vita e le vicende dei suoi parrocchiani, la cui sopravvivenza dipende in larga misura dalla prosperità dello “sfroso” (il contrabbando) e dalla loro capacità di vincere la quotidiana competizione con la “borlanda” (la guardia di finanza). La storia si sviluppa come un moderno incontro di tennis (e non poteva essere altrimenti conoscendone l’autore!): lunghi, potenti e micidiali scambi dalla linea di fondo con rarissime discese a rete. Ma non per questo l’intreccio risulta meno avvincente ed apprezzabile rispetto a talune storiacce che spesso vengono proposte dal mercato editoriale. L’uso del dialetto, parsimonioso e non invadente, arricchisce il testo ed incuriosisce il lettore.
Il narrare è lieve, etereo quasi si voglia imitare le atmosfere del lago avvolto dalle nebbie invernali. Ne esce fuori il racconto di una figure che, sebbene a tratti faccia per un attimo pensare al Don Camillo di Guareschi, dà l'impressione di essere, conoscendo alla grossa le vicende personali dell'autore, quasi una sorta di rivissuto dell'esistenza, come se si voglia tornare ad un bivio intrapreso e che mille dubbi ha lasciato. La pecca forse in qualche soluzione affrettata che avrebbe meritato qualche pagina in più e delle riflessione più intime. Ma il tono è affettuoso, venato di una nostalgia- accresciuta dall'uso del dialetto - di chi crede che sia il momento di un resoconto personale della propria esistenza.
Se il contenuto è carino e originale dipingendo stralci di vita di un paese del lago, da parte del parroco, lo stile di scrittura usato è alquanto spigoloso, manca di armonicità e scorrevolezza, Si fa leggere, ma non coinvolge più di tanto
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