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Disoccupazione di fine secolo. Studi e proposte per l'Europa - Pierluigi Ciocca - copertina
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Disoccupazione di fine secolo. Studi e proposte per l'Europa - Pierluigi Ciocca - copertina
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Descrizione


Il secolo si chiude con 35 milioni di persone inoperose nell'area dell'OCSE (l'8 per cento delle forze di lavoro), e l'aspetto più preoccupante è la persistenza del fenomeno: dal 1991 il tasso di disoccupazione nell'area non è mai sceso al disotto del 7 per cento, e la previsione per i prossimi due anni è di lentissimo, insoddisfacente miglioramento. Nell'Europa continentale la situazione è di allarme rosso: 15 milioni di disoccupati, un tasso più che doppio rispetto a quello degli Stati Uniti...
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Dettagli

380 p.
9788833910512

Voce della critica


recensione di Valli, V., L'Indice 1998, n. 5

È un piacere commentare un volume come quello curato da Pierluigi Ciocca. In un'epoca di grigio conformismo sulle analisi e sulle ricette per un rilancio dell'occupazione in Europa, una voce dissonante dal coro e che non si vergogni di citare estesamente Keynes è come un poco d'aria fresca in una serata troppo umida e calda.
Il coro di giornalisti e studiosi predica da tempo: bisogna prendere esempio dagli Stati Uniti, che dal 1973 hanno aumentato fortemente l'occupazione mentre in Europa essa ristagna, e quindi aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. Occorre inoltre dare alle imprese libertà di licenziare, di fare contratti di lavoro a tempo determinato, ecc.. Bisogna infine ridurre il costo del lavoro, comprimere le spese sociali e magari aumentare gli orari di lavoro.
Ciocca e i coautori del volume mostrano quanto più complesso sia il quadro analitico e più ardua e meno semplicistica sia la definizione del pacchetto di politiche dell'occupazione da utilizzare.
Il primo assunto del volume è fondamentale. Il mercato del lavoro non va studiato in isolamento, come fanno molti economisti del lavoro, che concentrano l'analisi sul problema rigidità-flessibilità e sulla pseudo-offerta di lavoro; ma va visto congiuntamente col mercato dei prodotti, con gli investimenti e con le altre grandi variabili macroeconomiche. È questa, come ci rammenta Ciocca, una delle lezioni fondamentali di Keynes, spesso scordata nel dibattito recente.
Se il saggio di Sestito dà una ricca rassegna della questione del lavoro e delle interpretazioni proposte e quello di Amartya Sen mette l'accento sui danni economici, ma anche sociali e psicologici, della disoccupazione, lo scheletro teorico su cui poggia il volume è soprattutto delineato nel saggio di Pasinetti. Per Pasinetti lo sviluppo è sempre accompagnato da profonde trasformazioni strutturali dovute alle complesse combinazioni dell'evoluzione della domanda e della tecnologia, e quindi sempre si accompagna a fenomeni di creazione e di distruzione di posti di lavoro. In questo contesto non basta il mercato, né basta la pianificazione, per risolvere i problemi, ma occorre agire in profondità sulle istituzioni, per creare un ambiente favorevole alle innovazioni di prodotto e alla crescita occupazionale, nonché ridurre gradualmente l'orario di lavoro.
Nei contributi di Mariotti, di Sestito e Trento e di Boitani e Pellegrini si analizzano i rapporti fra tecnologia e occupazione e le potenzialità occupazionali del terziario. In quello di Lunghini si sposta decisamente l'accento sui "due grandi fallimenti del mercato: la disoccupazione di massa e la massa dei bisogni sociali insoddisfatti...". La principale via d'uscita è di curare la prima soddisfacendo la seconda, ma ciò non può farlo né il mercato, né un dittatore, bensì forse, seguendo il Keynes della "Fine del 'laissez faire'", "enti semi-autonomi entro lo stato (...) il cui criterio d'azione sia il bene pubblico".
Finemente articolato è il quadro delle politiche delineate da Ciocca, che auspica una vera e propria azione permanente per l'occupazione, una vera e propria "costituzione del lavoro", complementare alla "costituzione monetaria", da perseguire non solo per annullare tendenzialmente la disoccupazione involontaria, ma anche per ottenere un'occupazione di buona qualità.
Sul piano microeconomico la ricetta è di ottenere "più concorrenza". La concorrenza, qui vista come sprone all'impresa, non è sinonimo tuttavia del mercato e del "laissez faire". Essa richiede regole, richiede difensori della concorrenza, quali ad esempio l'autorità antitrust. Essa richiede inoltre politiche e istituti che aumentino, ad esempio, la mobilità del lavoro con interventi efficaci nei campi della scuola, delle abitazioni, dei trasporti.
Sul piano delle istituzioni e della tecnologia la ricetta suggerita è inoltre quella di cercare di accrescere la produzione di nuovi beni e soprattutto di nuovi servizi assistendoli nella fase cruciale di avviamento del mercato.
Per quanto riguarda l'orario di lavoro, che è oggetto di una approfondita analisi nel saggio di Bentivogli e Sestito, Ciocca ritiene "poco convincente una riduzione 'forzata' dell'orario volta ad accrescere l'occupazione ripartendo fra più lavoratori un dato monte-ore". Tuttavia, "l'intervento pubblico deve creare la cornice che renda possibili la transizione dal tempo pieno al tempo parziale e l'interruzione temporanea del lavoro nel ciclo di vita".
Sul piano, infine, delle condizioni economiche complessive e delle politiche macroeconomiche Ciocca fa propria l'analisi del saggio di Nardozzi che ha mostrato come una cattiva politica economica abbia contribuito negli anni ottanta e novanta all'ascesa e alla persistenza della disoccupazione europea. L'innesto del rigore monetario tedesco su sistemi, quali quelli italiano e francese, caratterizzati da forme di regolazione assai diverse del mercato del lavoro, e il correlativo brusco aumento in questi paesi del tasso d'interesse reale con i connessi fenomeni di ristrutturazione industriale vi hanno aumentato grandemente la disoccupazione già negli anni ottanta mentre negli anni novanta la perdita di competitività dell'industria tedesca e i costi dell'unificazione hanno contribuito a peggiorare la situazione occupazionale anche in Germania.
La ricetta di Ciocca è quindi quella di conciliare una politica di sviluppo e di espansione della domanda con una politica di stabilità dei prezzi e di crescita "appropriata" dei salari alla Sylos Labini, cioè una crescita non troppo elevata, per non comprimere l'occupazione, e non troppo bassa, per non comprimere la domanda. Occorrerebbero inoltre un tasso d'interesse "appropriato", né troppo alto, né troppo basso, finanze pubbliche in ordine e un buon equilibrio nei conti con l'estero.
Tali requisiti sono peraltro tutt'altro che facili da raggiungere, soprattutto in un periodo di risanamento delle finanze pubbliche in molti paesi europei e di non facile coordinazione delle politiche economiche tra i paesi europei e tra questi, gli Stati Uniti e l'Asia estremorientale.
L'analisi svolta nel volume è quasi sempre convincente. Due commenti sono tuttavia opportuni. Il primo riguarda la politica per l'innovazione tecnologica. L'Italia, come altri paesi europei, ha privilegiato l'innovazione di processo rispetto all'innovazione di prodotto e gli investimenti intensivi rispetto a quelli estensivi. Il nostro paese ha investito poco e talvolta male in ricerca e sviluppo, in istruzione superiore, nella formazione sul lavoro dei giovani, nelle infrastrutture essenziali per la crescita produttiva, mentre ha incentivato di fatto i processi di ristrutturazione produttiva, di prepensionamento, di sostituzione di uomini con macchine, ecc. Tutto ciò ha contribuito a un forte, seppure parziale, recupero di produttività nei confronti degli Stati Uniti, ma anche a una stagnazione dell'occupazione giovanile. Comparativamente pochi giovani sono stati quindi esposti a fenomeni di apprendimento attraverso l'esperienza lavorativa, e ciò ha condotto a una brutta ipoteca sul futuro, anche perché sono soprattutto i giovani che meglio riescono a introdurre innovazioni di prodotto e a sostenere il sistema pensionistico e sanitario nel futuro.
Il secondo commento riguarda il dibattito, oggi rovente, sull'orario di lavoro. Se è da condividere la tesi che una riduzione forzata e generalizzata degli orari di lavoro - come può derivare dalla rigida versione di una legge sulle 35 ore - può essere pericolosa per gli equilibri delle imprese e quindi, in ultima analisi, per l'occupazione, non è da scartare una versione più graduale e flessibile della riduzione d'orari che giunga, con incentivi e disincentivi, a condurre a orari ridotti su base annua, e che stimoli, con forme di "fasce d'orario" differenziate, "orari d'ingresso" per i giovani e "orari d'uscita" per gli anziani, il raggiungimento di una più appropriata distribuzione degli orari di lavoro fra la popolazione. Si può in tal modo tener maggiormente conto delle esigenze individuali e familiari di ciascuno nell'ambito del proprio ciclo di vita e dell'importanza economica e sociale di introdurre un maggior numero di giovani nel mondo del lavoro.

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Conosci l'autore

Pierluigi Ciocca

Dal 2008 è socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Per Donzelli ha pubblicato: La banca che ci manca. Le banche centrali, l’Europa, l’instabilità del capitalismo (2014) con Angelo Bolaffi, Germania/Europa. Due punti di vista sulle opportunità e i rischi dell’egemonia tedesca (2017) e TORNARE ALLA CRESCITAPerché l’economia italiana è in crisie cosa fare per rifondarla.

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