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recensione di Cacciavillani, G., L'Indice 1994, n. 2
A proposito del genio di Guy de Maupassant, nessuno ormai condivide più il severo giudizio di Gide, anche se i contemporanei non furono teneri con lui, e una più serena valutazione si è imposta solo negli ultimi decenni: "Non avendo niente di speciale da dire, non sentendosi portatore di alcun messaggio, vedendo il mondo e presentandocelo un po' in nero, Maupassant resta per noi(come del resto voleva essere) un impeccabile operaio della letteratura. Per tutti i suoi lettori è sempre lo stesso e a nessuno parla in segreto".
Più di trecento racconti, sei romanzi, oltre duecento grandi recensioni, diari di viaggio, alcune pièces teatrali: questo è il frutto di poco più di dieci anni (1880-90) di forsennato lavoro, accompagnato da vizi e stravizi di ogni genere e dal tetro stendardo della vantata sifilide. Maupassant è anche vissuto all'ombra dell'insigne maestro - Flaubert -, che raffren• la foga normanna iniziandolo ai sacri misteri della perfezione stilistica. Ma fu la madre a gettare sulla sua vita il più denso cono di luce e di ombra. Laure de Poittevin non fu solo l'amica d'infanzia (l'amante?) di Flaubert, ma, signora colta e raffinatissima, divorziata, fu per Guy una "figura dominante", - la "donna" in confronto alla quale tutte le altre restarono "femmine", - che, col suo misterioso suicidio (contestuale alla morte di Flaubert e alla follia dell'altro figlio, Hervé), installerà nelle viscere mentali dello scrittore la macchia nera che all'infinito ruggisce e tormenta.
E ancora lecito parlare di realismo per le secche, asciutte ma concretissime prose di questo artista divorato dall'idea della morte? Quel suo sarcasmo, quel suo cinismo, quella sua crudeltà, quella autenticissima "souffrance de vivre" sono esclusivamente dettati da una meditazione dell'opera di Schopenhauer? Si sarebbe tentati - e sarebbe forse troppo facile - di assumere gli ultimi due, tre anni di vita dello scrittore, ormai squassato dall'angoscia, dalla spersonalizzazione, dall'ossessione del "doppio" e dell'acqua che ghermisce i corpi e li imprigiona nelle sue liquide spire, quale paradigma di un'intera esistenza, e dire: quella tragica e precocissima fine, a quarantatré anni, aveva radici lontane (morì in preda a una cupa demenza, dopo aver tentato il suicidio, dopo dodici mesi d'agonia, in quella stessa clinica del dottor Blanche che qualche anno prima aveva avuto fra i suoi ospiti l'altro grande folle dell'Ottocento francese, Gérard de Nerval).
Fatto sta che la critica più recente, pur non disconoscendo la perizia di questo grande maestro del racconto nell'affondare il suo bisturi in tutti gli strati sociali e in tutte le umane condizioni, evocando l'ipocrisia dei benpensanti, la crudeltà della "brava gente", la malizia dei contadini normanni, il cinismo degli arrivisti, le infinite, piccole cattiverie di una società spietata, ha cercato di mettere a fuoco il terreno d'elezione da cui spunta la novella di Maupassant.
C'è, in prima linea, un certo gusto pervasivo per l'universo femminile, esplorato nei suoi meandri e anche nelle sue opposte manifestazioni: c'è una comprensione in profondo della donna quale raramente si riscontra nella narrativa maschile dell'Ottocento. Dall'adultera alla semplice madre, dalla civetta alla megera, dalla donna fatale alla moglie vittima del costume borghese, dalla prostituta all'infanticida, c'è in Maupassant - come è stato detto - una vera pietas per l'essere femminile.
Presenza inconscia dell'imponente figura materna? Certo. Ma ecco che, in seconda fila, al di là dell'amara ironia, avanzano strane curiosità narrativamente esplorate con mano sovrana: l'incesto, il parricidio, l'omosessualità; l'incerta identità di figlio e l'incerta identità di padre; il tormentoso mondo delle nevrosi e delle psicosi, con il corteo di feticisti, necrofili e perversi vari (Maupassant seguì per un certo tempo le lezioni di Charcot alla Salpetrière, giusto qualche anno prima di Freud). Un nero senso di fatalità, di predestinazione s'accalca nel cuore del racconto; non manca neppure un'esplorazione nell'ipotetica dimensione degli alieni; e intanto urla un sentimento incomprimibile di degradazione del tutto; il tempo, come le cose, lentamente ma inesorabilmente passa e dissolve; i fantasmi del profondo erompono e dominano in modo possente ed esclusivo gli ultimi racconti.
Ecco allora che queste "Domeniche di un borghese di Parigi" (una serie di dieci articoli o episodi, pubblicati sul "Gaulois" fra il maggio e l'agosto del 1880) appartengono alla preistoria della sua carriera e all'archeologia della sua arte narrativa. Fra novella e cronaca, in una sequenza di "quadri", la "passeggiata" consente di introdurre i divertenti e amari incontri del povero Patissot: il pescatore, il giornalista, la donnina allegra, il medico, il viandante, l'ideologo, il malinconico... Neanche Patissot è un vero e proprio personaggio a tutto tondo: è una fragile silhouette anonima, il cui stesso nome - come osserva Sandra Teroni nella sua finissima introduzione - indica l'unione di stoltezza ('sot') e sofferenza ('patir'). Ne deriva l'immagine "di una infelicità meschina, di una stupidità che condanna alla frustrazione, ovvero di una malattia della stupidità".
Schiaccianti sono ancora, per Maupassant, i modelli di riferimento: Balzac che fa la satira del conformismo piccolo borghese e l'infinita epopea della 'betise' intrapresa da Flaubert. Eppure, la definitiva "vocazione mimetica" di Patissot, la sua "capacità scimmiesca d'imitazione", il suo essere costantemente in preda al cliché, fan sì che il personaggio incarni già una forma di alienazione (per altro, anche questa di tipo bovaristico): egli si identifica con gli eroi dei romanzi d'avventure e delle storie sentimentali, si mostra continuamente altro da quel che è, recita involontariamente, porta una maschera che non falsa solo il suo Io (è proprio il "falso sé" di Winnicott), ma falsa e distorce anche la realtà con cui entra in rapporto. Emblema tanto del luogo comune quanto dell'"abominevole nausea delle stesse azioni continuamente ripetute", Patissot finisce per prefigurare una delle più intense ossessioni di Maupassant: quella dell'arresto del tempo, della pietrificazione del vissuto, dell'eterno ritorno del medesimo che erode, inghiotte e annienta.
Questo aspetto di degradazione del reale e di annullamento della storia affiora appena, ma con autenticità profonda, in certe metafore, in certe comparazioni di carattere animalesco. Il treno, per esempio, è visto dal narratore "come un lungo bruco che si snoda per la piana"; lo stesso treno, stipato di pescatori con le canne in mano, si trasforma in un "grosso porcospino", mentre Patissot sembra affascinato dalla contemplazione delle larve di mosca: "Le orride bestie, che emanavano un fetore immondo, brulicavano nella crusca, come fosse carne marcia".
L'impressionante macchina narrativa di Maupassant stava proprio per partire.
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