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Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura - Giulio Ferroni - copertina
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Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura
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Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura - Giulio Ferroni - copertina

Descrizione


Per gli antichi romani, "postumo" era il figlio che nasceva dopo la morte del padre. Per Giulio Ferroni, la letteratura vive una condizione assai simile: è qualcosa che nasce dopo ciò che l'ha prodotta. Oggi che la letteratura sembra superata da altre forme di espressione, la condizione postuma dello scrittore è ancora più radicale, e le stesse illusioni di chi vuole rivendicare la vitalità e l'attualità della letteratura non fanno che ratificarne la fine. Per Ferroni, se ne può uscire solo praticando una specie di "ecologia postuma" che elimini la chiacchiera culturale, gli esercizi di erudizione e le follie interpretative ristabilendo un rapporto diretto con i classici e cercando di riconoscere le poche parole che contano.
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Dettagli

1996
1 gennaio 1997
VIII-198 p.
9788806139667

Voce della critica


recensione di Siti, W., L'Indice 1996, n. 5

Non si può che essere d'accordo col discorso che fa Giulio Ferroni in "Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura"; almeno quando illustra l'intimo rapporto che la letteratura ha sempre intrattenuto con la morte. Secondo Proust lo scrittore è una specie di Shéhérazade, che rimanda ogni notte la propria morte trovando sempre cose nuove da scrivere, ed è nello stesso tempo attanagliato dal terrore di non riuscire a finire quello che ha in mente. La speranza che l'opera ci sopravviva rinfocola l'ansia, e scrivere "da morti" allevia la pena del competere. Ferroni documenta il tema dei rapporti letteratura-morte fin dall'origine della tradizione occidentale, ma ne documenta anche un indubbio aumento di frequenza nell'Otto-Novecento, legato a una sensazione di tramonto della nostra civiltà; oggi poi il tema sarebbe diventato onnipervasivo e quasi ineludibile, perché il lento tramonto è diventato rapido tracollo.
I segnali sono troppi, resta soltanto l'incertezza sui modi. Ferroni nel suo libro chiama a raccolta tutti i nostri padri (parlo di noi che abbiamo intorno ai cinquant'anni), tutti quelli che ci hanno insegnato la lucida coscienza del ne-gativo, da Fortini ad Adorno, da Broch a Beckett. A vederceli tutti intorno così ci si riscalda il cuore: dunque abbiamo ragione, contro gli sciocchi che si ostinano ad agitarsi e a incrementare lo spessore degli inganni, contro i malvagi che approfittano del disorientamento per perseguire i propri interessi, contro chiunque voglia ridurre la tragedia a un progressivo rincretinimento. Questione di dignità. Eppure, dopo aver letto quel che Ferroni argomenta, resta un odore di aula scolastica, di lamento professorale che i giovani ascoltano con un orecchio solo; c'è (mi sembra) nel libro qualcosa che suona vuoto, uno spiffero che soffia sull'intelligenza e la rende inefficace. Forse una mancanza, come dire, di manualità: una renitenza a sporcarsi le mani sulla materia (il che non vuol dire necessariamente fare letteratura in proprio, ma aver coscienza dell'artigianalità del lavoro).
Come si forma un classico è una storia divertente: come si crea, a botte successive, quell'aura per cui regaliamo a certi testi un effetto di moltiplica, li rendiamo belli di tutti i nostri bisogni di bellezza, li commentiamo come sacre scritture. È un miscuglio di caso, di strategia, di destino e di giustizia: guerre che scoppiano, fortuna di campare abbastanza, tecniche della "presenza", coincidenza col genio della lingua e infine, ma soltanto infine, coerenza e portata strutturale del testo. Se è vero che quasi sempre alla fine il valore vince, è anche vero che nella composizione di quel valore entrano il perbenismo, il desiderio di comodità e di evasione di tutti noi quando siamo lettori.
Ferroni attribuisce alla lettura un potere che non capisco mica tanto: anche i testi maledetti, dice, quelli che stanno dalla parte del male e vogliono fare del male a chi legge, diventano un bene "nel momento in cui si offrono alla lettura". Perbacco. A me è sempre parso, al contrario, che una lettura corretta dovesse conservare proprio il ricordo del male: la "Divina Commedia" è anche una cattiva azione, pensiamo a come si devono essere sentiti i parenti di Brunetto Latini. Evidentemente il bene a cui allude Ferroni è la capacità di riflessione che la lentezza della lettura permette; ma se la lentezza è un prodotto della densità del testo, perché la stessa densità, e quindi lo stesso obbligo alla riflessione, non potrebbe esistere per esempio in un flusso velocissimo di immagini?
La verità è che Ferroni ha bisogno di assolvere i classici per farsene scudo contro l'invasione della nuova barbarie, multimediale e video-telematica. Ma il testo letterario è un buffone inaffidabile, una Jenny dei pirati, e tira calci a chi vuole arruolarlo nelle armate della "civiltà" - quella civiltà che spesso lo ha offeso e dalla quale è scappato: perché adesso in situazione d'emergenza dovrebbero fare la pace? La letteratura non è maestra di niente. Non è sacca di resistenza, ma miseria pronta a mettersi al servizio di qualsiasi padrone, eticamente indifferente e qualche volta scapestrata. Oltretutto, la fine della letteratura occidentale non sarà eroica come in "Fahrenheit 451": stiamo vincendo, noi prepotenti offriamo comodità - i barbari arriveranno già occidentalizzati e daranno luogo ai più vari meticciati espressivi. La parte più pericolosa del libro di Ferroni mi pare quella in cui si spinge a dare una ricetta per la letteratura da fare: una letteratura consapevole del suo ruolo di testimone della fine, e quindi si suppone con una faccia di circostanza...
Ferroni è preoccupato dall'avvento delle nuove tecniche, e della superficialità che sembrano portare con sé, mescolando inestricabilmente arte intrattenimento e informazione. Arriva a temere che "tutti i linguaggi artistici... tendano a chiudersi, a esaurirsi, ridotti a una condizione postuma". Timore infondato, quando gli uomini spariranno dalla terra l'arte la faranno i roditori. Certo, fare arte con le nuove tecniche costa sempre di più (proprio in termini di denaro) e il nuovo mecenate è la massa, per cui nasceranno nuove forme di arte encomiastica, dove all'elogio del principe si sostituirà il blandimento del mediocre; giovani critici, colpiti dalla divaricazione tra valore e successo, chiederanno in buona fede di rivedere l'estetica; il midcult continuerà a confondere la divulgazione con l'essenza. Sono fenomeni a cui bisognerà rispondere politicamente, opponendo il buono al cattivo e trovando i canali per farlo - questa è certo la parte più convincente del libro, quella della lotta per una minima decenza culturale. Ma non credo, come invece Ferroni implicitamente suggerisce, che dobbiamo stringerci al seno i nostri classici e sovraccaricarli di doveri.
Ogni volta che si invita la letteratura a una lotta, lei reagisce diventando retorica: una retorica delle rovine non sarebbe meno falsa di una sul sole dell'avvenire. L'arte continuerà a giocare e lo farà con tutti gli aggeggi che la tecnologia le fornirà; se il nostro cervello si disabituerà alla lentezza, lei si adeguerà a ritmi più veloci. L'ha già fatto, altre volte. La parola è davanti a una bella sfida, quella di gareggiare col violento "sembrar vero" delle immagini televisive, col continuo spostamento dei paletti della fiction; per conservare il quotidiano, la registrazione audiovisiva è meglio della letteratura.
E allora la letteratura, diventata finalmente arte minoritaria e liberata da un peso di leadership, potrà esplorare le proprie potenzialità di genere, facendo quello che l'audiovisivo non può fare: sporgersi, mettiamo, sugli enigmi del senso (i miti forse no, ma gli indovinelli devono esser fatti di parole), o orchestrare un sistema di registri linguistici di tale ricchezza da dare il mal di mare alle immagini che volessero seguirla. O ancora, e invece, contaminare tutti i generi spiazzando le attese...
Indignato dall'infantilismo della cultura di massa (si sa che i bambini sono eccitati dai suoni e dai colori molto prima di imparare a parlare e a scrivere), Ferroni affida alla letteratura un ruolo educativo: vecchia storia, vecchi malintesi. Meglio proporre ai ragazzi chi ha agito bene, piuttosto che chi ha ben scritto. Forse la letteratura bisognerebbe addirittura abolirla nelle scuole secondarie, e riservarla agli studi universitari specializzati; forse si potrebbe pensare a delle scuole professionali di letteratura, come esistono le accademie d'arte o i conservatori. Ferroni confessa alla fine del libro il rimpianto commovente di non riuscire a leggere abbastanza, mentre la letteratura qualche volta è (è stata, in momenti cruciali) smettere o rifiutarsi di leggere.
I pittori medievali dipingevano, sulle pareti delle chiese, particolari così piccoli e a tale altezza che nessuno sarebbe mai riuscito a vederli: ma li vedeva Dio. Quello è l'unico criterio: solo che il dio della letteratura non è il dio della morale, e sono quasi sicuro che Dio non è un professore.

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Conosci l'autore

Giulio Ferroni

(Roma 1943) critico e saggista italiano. Professore all’università di Roma, si è dedicato in particolare al teatro del Cinquecento («Mutazione» e «riscontro» nel teatro di Machiavelli, 1972; Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, 1977; Il testo e la scena, 1980), prima di intraprendere la stesura della Storia della letteratura italiana (1991). Nel 1996 ha pubblicato il saggio Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, mentre alla sua vena di corrosivo osservatore dell’attualità culturale si devono le Lettere a Belfagor (1994), uscite sotto lo pseudonimo di Gianmatteo Del Brica. Altri saggi: La scuola sospesa (1997), Passioni del Novecento (1999), I confini della critica (2005), Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero (2010).

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