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Descrizione


"Dossier K." è un romanzo autobiografico sotto forma di dialogo che stacca il suo ritmo battendo su domande capitali, che pone il lettore nella condizione di muovere intelligenza ed emozioni. Kertész mette in discussione se stesso, e insieme i più grandi eventi della storia del Novecento. Un cuore messo a nudo, un mondo messo a nudo. L'infanzia a Budapest; il divorzio dei genitori; il rapporto con i nonni e la matrigna; l'esperienza ad Auschwitz e Buchenwald; il ritorno in Ungheria; il periodo nel Partito comunista; l'era Kadar;la caduta del Muro di Berlino; i due matrimoni; il premio Nobel; Berlino; la depressione; il ritorno alla scrittura. E ancora: la letteratura; la politica; i campi di concentramento e la dittatura comunista; la libertà; la voglia e la fatica di scrivere.
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Dettagli

2009
12 giugno 2009
192 p., Brossura
9788807017971

Voce della critica

Imre Kertész è nato il 9 novembre, la data della Notte dei cristalli, del 1938, e quella della caduta del Muro di Berlino, nel 1989. "Imre Kertész – scrive Samuel Tastel – porta dentro di sé queste due date". Ma ciò che è importante per l'autore di Essere senza destino è inventare la realtà, entrare in un "singolare mondo sovrano dove può accadere di tutto", quel pezzo di mondo che segue le leggi dell'arte.
Da un'"intervista in profondità", rilasciata all'amico Zoltán Hafner, nasce il Dossier K. Considerare la propria vita "materia prima" della costruzione narrativa non significa, per Kertész, aderire al genere definito "romanzo autobiografico", bensì liberarsi dai complessi e dalle costrizioni. Perché se l'autobiografia ricorda, la finzione crea. Il dialogo con Hafner si svolge intorno a eventi biografici legati alla genesi dei romanzi, e l'unico strumento per decifrare la realtà è la fantasia, il distacco, l'ironia, pesino il cinismo.
In Kaddish per un bambino non nato aveva scritto cose terribili sul padre: "Auschwitz (…) aveva le sembianze del padre, sì, le parole 'padre' e 'Auschwitz' producevano dentro di me la stessa eco". Nel dialogo, chiarisce: si tratta del personaggio di un romanzo in cui tutto è portato all'estremo, "l'arte non è altro che esagerazione, deformazione". La concezione di Freud, evidentemente, gli permette di considerare la questione anche da un altro punto di vista: "Uno porta sempre rancore nei confronti dei propri genitori (…) perché anche se è vero che lo hanno messo al mondo, al tempo stesso, tuttavia, lo hanno messo alla mercé della morte". Al destino di morte si lega a doppio filo un'altra questione che reca in sé un significato misterioso e complesso: l'ebraismo. "Non sono in grado di dire se si sentisse in colpa per aver trasmesso quella sua eredità che stava diventando sempre più infausta, in parole povere: per aver procreato un bambino ebreo in questo mondo inospitale (…) Non esisteva nulla che io potessi accettare (…) potevo tutt'al più sentirmi scontento a causa del mio ebraismo, potevo brontolare tra me e me, oppure fantasticare su qualche situazione meno disgustosa". Il "No!" iniziale di Kaddish è la risposta che il protagonista dà a Obláth, dottore in scienze spirituali, che gli aveva chiesto se avesse un figlio. È il "no!" alla paternità e alla responsabilità di mettere al mondo altri sopravvissuti alla catastrofe. Ma quando il padre scompare e non costituisce più una "minaccia" nei confronti del figlio, si verifica – per citare ancora Freud – "un ritorno di tenerezza", nutrita dall'ansia di cercare il significato di ciò che si nasconde dietro le cose che accadono.
Meno tenebroso appare il rapporto con la madre, una vera epicurea che non manifestava alcun interesse per la questione ebraica, e in questo "non si lasciava disturbare più di tanto da qualche antisemita". La religione, intesa come devozione spirituale e interiorità, non la coinvolgeva affatto, tanto che, verso la fine degli anni trenta, si convertì "forse a quella luterana di cui, una volta scoperto che non sarebbe servita a difenderla dai guai, si dimenticò". Dopo la separazione dal marito si risposò e andò ad abitare in un piccolo appartamento che si affacciava sul giardino del ristorante Nardai, uno dei tanti luoghi proustiani della Budapest di Kertész: "Diversi decenni dopo, quando la Nona sinfonia di Mahler esercitò un'influenza così straordinaria sulla mia vita, la prima parte, nel punto in cui il motivo nostalgico (…) si solleva a un tratto al suono di un unico violino, mi faceva sempre venire in mente la musica zigana del ristorante Nardai".
"Intermittenze del cuore", le chiamerebbe Proust, sono i tanti luoghi di Budapest che sorgono inattesi: l'appartamento di via Baross, di cui ricorda uno "stupido orologio (…) accoccolato in cima alla vetrina stracolma di ninnoli di porcellana"; il negozio di legname del padre, in via Koszorú, descritto accuratamente in Essere senza destino;la via del Corso, sulla quale spuntava, ogni domenica, l'uomo che portava al guinzaglio cinque o sei mastini perfettamente identici tra loro. Ricordi drammatici sparsi di aneddoti, che servono di appoggio alla struttura della finzione letteraria. Ne è un esempio la descrizione del campo di calcio di Birkenau, inserita nel Diario dalla galera; o la figura del giovane frequentatore dei concerti che si tenevano alla Zeneakadémia, presente in La bandiera inglese; e ancora, il ritratto del "compagno" Marci Fazekas, riconoscibile nel personaggio di Fiasco, che legge poesie sotto una gigantesca carta geografica della Corea.
La biografia si amalgama con grandi temi storico-esistenziali. L'universalità dell'Olocausto: in Diario della galera aveva scritto che "Auschwitz è il trauma più grande dell'umanità sin dai tempi della croce". Arte e dittatura: alla frase di Adorno "scrivere poesie dopo Auschwitz è una barbarie", Kertész risponde: "l'arte ritiene sempre che la vita sia una festa". Smarrimento e nostalgie nella terra della falce e martello: dopo la caduta del muro, ci si domanda "se nel sopravvissuto alle dittature sia rimasta ancora la forza per accettare la libertà".
Celestina Fanella

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Conosci l'autore

Imre Kertész

1929, Budapest

Romanziere e saggista ungherese, nel 2002 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Di origini ebraiche, nel 1944 subì la deportazione ad Auschwitz e Buchenwald, da cui fu liberato dopo un anno. Per la manifesta avversione al regime comunista, fu licenziato dal quotidiano per il quale lavorava; per sopravvivere si dedicò alla traduzione (Freud, Nietzsche, Canetti, Wittgenstein), iniziando contemporaneamente la stesura del romanzo che lo impegnerà per circa dieci anni: Essere senza destino, in cui narra l’esperienza di un quindicenne deportato ad Auschwitz che, in un’ottica di aberrante alienazione dettata dallo spirito di sopravvivenza, riesce ad adattarsi agli orrori del campo. L’opera, rifiutata per anni dagli editori e pubblicata...

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