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Eguaglianza, interesse, unanimità. La politica di Rousseau - Alberto Burgio - copertina
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Dettagli

1989
3 settembre 2007
448 p.
9788870882094

Voce della critica

VIROLI, MAURIZIO, Jean-Jacques Rousseau and the 'well-orderer society'

PEZZILLO, LELIA, Rousseau e Hobbes

BURGIO, ALBERTO, Eguaglianza interesse umanità. La politica di Rousseau
recensione di Gliozzi, G., L'Indice 1990, n. 4

Tra i giovani studiosi italiani si sta manifestando un nuovo interesse per la filosofia politica di Rousseau, dopo anni di silenzio in cui (con poche lodevoli eccezioni) sembrava si fossero esaurite le domande da rivolgere al grande ginevrino, tempestato in tempi ideologicamente più caldi di interrogazioni marxiste, dapprima per ricondurlo nell'alveo del pensiero di Marx, poi per respingerlo con dispetto nella schiera dei fondatori del pensiero borghese.
Che cosa si chiede oggi a Rousseau? Il lavoro di Alberto Burgio, che si presenta sotto le vesti di una ricerca filologica attentissima allo studio dei testi e più ancora della letteratura critica, lo dichiara fin dalle prime pagine: superando sia le letture "totalitarie" che quelle "liberali", occorre vedere nella conciliazione di libertà e giustizia il problema teorico di fondo dell'autore del "Contratto sociale". Burgio ritiene che il progetto politico di Rousseau presupponga determinate condizioni sociali, che sole possono garantirne il successo. Il contratto presuppone per esempio l'unanimità, e ciò va inteso non nel senso di un abbandono dell'attenzione per i diritti individuali giusnaturalisticamente intesi, ma al contrario come una difesa dell'autonomia dell'individuo in un momento storico in cui si tratta di costruire, contro il prevalere dei rapporti di dipendenza privata, un "soggetto politico autenticamente pubblico". Il contratto presuppone altresì l'eguaglianza e la conciliazione degli interessi individuali. Ma a giudizio di Burgio l'eguaglianza politica proposta da Rousseau non è livellatrice, è meritocratica: Rousseau riconosce la "legittimità di un'inégalité morale (cioè di disuguaglianze sociali e politiche) proporzionata all'inégalité physique". Si attenua dunque la condanna della proprietà privata, e si apre la possibilità di superare gli effetti dirompenti della società concorrenziale, giacché proprio l'espressione della volontà generale presuppone un continuum oggettivo e necessario tra bene individuale e collettivo, interessi particolari (bene intesi) e interesse comune".
Aleggia, nell'interpretazione di Burgio, un'aura di ottimismo: in definitiva Rousseau sembra aprire una possibilità teorica alla conciliazione degli antagonismi sociali, senza cadere nel baratro del totalitarismo. Ma non vi sono, in Rousseau, anche aspetti meno rassicuranti? Per esempio: Rousseau afferma certamente, come Burgio sottolinea, che la legge, se espressione della volontà generale, non può essere ingiusta; ma non scrive forse anche che tutte le leggi sono a vantaggio dei ricchi e a detrimento dei poveri? In uno stato che ammetta (seppure in misura giudiziosamente limitata) la disuguaglianza sociale, la legge non funziona comunque da moltiplicatore di iniquità? E più in generale: una legge che stabilisca una gerarchia sociale proporzionale alle disuguaglianze fisiche non rischia di suonare come una legittimazione del diritto del più forte, onde Rousseau verrebbe paradossalmente a sostenere, con la sua dottrina meritocratica, proprio ciò che per tutta la vita ha dichiarato di combattere?
Queste domande sembrano rafforzate dalla tesi sostenuta da Lelia Pezzillo: che cioè Rousseau, con l'aiuto di Hobbes, consumi un completo distacco dalla concezione giusnaturalistica, cancellando quindi il problema stesso di trovare nella natura una norma per l'ordine sociale. È infatti su una concezione finalistica della natura, sposata all'idea aristotelica della socialità naturale, che poggia l'idea giusnaturalistica di una norma naturale che deve guidare, mediante la ragione, il comportamento sociale dell'uomo: ma proprio in Hobbes Rousseau trova gli strumenti concettuali per liberarsi dal finalismo e fondare un'antropologia politica che, come quella hobbesiana, ha i suoi cardini nella dottrina antiaristotelica dell'isolamento naturale e nella tesi dell'artificialità del linguaggio e della ragione. Dell'apparato concettuale giusnaturalistico rimane, nella teoria politica rousseauiana, soltanto quello che Hobbes chiamava diritto naturale, il cui nocciolo, l'autoconservazione, è anche per Rousseau l'unica guida che la natura impone all'uomo come a tutti gli esseri viventi senza servirsi della mediazione della ragione.
Ma c'è di più: Pezzillo mostra come Rousseau sia strettamente rapportabile a Hobbes nei punti nodali del suo pensiero politico. Infatti nel concepire il contratto sociale come calcolo razionale per la composizione della conflittualità dei rapporti interindividuali; nel definire i "caratteri del potere sovrano, la sua unità e unitarietà, assolutezza e infallibilità"; persino nel porre la libertà individuale quale fine dell'associazione politica, e quindi nel ribaltare diametralmente l'assolutismo hobbesiano in una concezione radicalmente democratica, Rousseau si avvale ancora di un "aggancio teorico" hobbesiano, giacché "la libertà politica-indipendenza è dedotta immediatamente dal diritto di autoconservazione in quanto suo ineludibile perfezionamento. Se così è, Rousseau si pone fuori dalla tradizione del contrattualismo lockiano, che attribuisce una valenza morale assoluta alla legge naturale, e ne fa il fondamento dei diritti individuali e della stessa obbligazione politica. Come in Hobbes, non si può non riconoscere in Rousseau un sostanziale relativismo etico che si manifesta nell'impossibilità di "offrire alla morale un fondamento assoluto e contenuti universali". Ciò non significa, però, cadere in uno statalismo totalitario dove scompare !'autonomia etica della persona e la morale coincide con la legge dello stato. C'è anche questo in Rousseau, ma non solo questo. Giacché, secondo la Pezzillo, Rousseau stabilisce una "priorità della morale individuale rispetto allo stato": una morale che poggia non sull'interesse ma sul sentimento, e che gravita intorno al valore della bontà, ben distinta dalla virtù che ha invece un carattere razionale e un'origine politica (e tuttavia: la critica rousseauiana dell'universalismo cristiano quale fondamento della politica non mostra tra bontà e virtù un'opposizione, piuttosto che un rapporto di subordinazione?).
Nell'interpretazione di Maurizio Viroli, invece, Rousseau è ricondotto nell'alveo della concezione giusnaturalistica lockiana, conformemente all'interpretazione di Kant e di Cassirer. A differenza di Hobbes, Rousseau non cerca soltanto un ordine politico, ma un ordine politico giusto. È ben vero che l'ordine morale non sussiste per l'uomo naturale: sulla base di una gnoseologia dualistica esso è concepito come prodotto dell'uomo divenuto principio attivo di conoscenza e di azione. È dunque un risultato dell'unione della volontà dei cittadini: ma non per questo è puramente convenzionale, giacché, come dice Rousseau, "ogni giustizia viene da Dio", anche se gli uomini non la ricevono da lui. Di qui la necessità di definire le connotazioni dell'ordine morale, che è appunto l'oggetto precipuo dell'analisi di Viroli. In Rousseau vi è indubbiamente un rapporto analogico tra ordine naturale e ordine morale come il cosmo ruota intorno al sole, così l'ordine morale ruota intorno a Dio. Tuttavia, contrariamente all'opinione di molti interpreti (primo fra tutti Durkheim), vi è anche, tra i due ordini, una sostanziale opposizione: l'ordine naturale preserva la totalità mentre il fine dell'ordine politico è assicurare libertà e sicurezza all'individuo. In tal senso, appunto, Rousseau riprende le premesse individualistiche del giusnaturalismo. Ma vi è dell'altro: la seconda parte del saggio di Viroli vuole mostrare la ripresa, da parte di Rousseau, dei valori repubblicani di Machiavelli, interpretato (conformemente alla lettura di Bayle) come autore indissolubilmente legato ai valori della libertà, e quindi implicitamente opposto a Hobbes. Ma la virtù repubblicana stabilisce la prevalenza dei valori della comunità su quelli dell'individuo: come si concilia allora con l'individualismo di matrice giusnaturalistica? Viroli risponde (ma è una vera risposta?) che le due tradizioni sono usate da Rousseau in due distinti momenti teorici del suo pensiero: il giusnaturalismo per giustificare i fondamenti dell'autorità politica, il repubblicanesimo per delineare i tratti del giusto ordine politico. La virtù si presenta pertanto non come un calcolo razionale dell'interesse personale, ma come la sostituzione di un momento emozionale con un altro, dell'amor proprio con l'amore della comunità.
Del resto, non mancano le tensioni all'interno del pensiero di Rousseau, e se da un lato egli, come Machiavelli, prevede la morte del corpo politico, dall'altro non giunge a formulare una concezione politico-morale che superi i limiti della città e abbracci l'intera umanità, compito che sarà assolto soltanto da Kant. Ma resta il fatto che, per sottrarre Rousseau al convenzionalismo hobbesiano, occorre ammettere "la superiorità morale della legge naturale rispetto alla legge positiva". Se non nel senso, caro a Derathé, che la giustizia civile sia la conferma di una giustizia naturale preesistente (giacché Viroli riconosce che non esistono diritti di libertà prima che la società politica sia istituita), almeno nel senso che la legge naturale costituisce un criterio alla luce del quale la legge civile può essere giudicata: quest'ultima non è veramente legge se non rispetta la legge naturale fondamentale "fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te".
Apriamo un'opera di Rousseau poco esplorata da Viroli, il "Saggio sull'origine delle lingue" (cap. IX): vi troviamo affermato che alle origini in natura regnava il "caos", e che "tutto sarebbe morto" se non fosse intervenuto l'uomo a introdurre l'ordine. Passi come questo, ben comprensibili nel quadro convenzionalistico e "epicureo" descritto dalla Pezzillo, sarebbero difficilmente collocabili nel cosmo ordinato tratteggiato da Viroli: viene il sospetto che quando egli promette "una completa analisi di tutti gli usi [rousseauiani] della parola ordine", prometta un po' troppo. Poco importa. Egli ha pur sempre il merito di aver messo a fuoco un problema cruciale suscitato dai testi di Rousseau: la tensione tra convenzionalità e oggettività dei valori. Sarà compito della critica rousseauiana verificare se la soluzione proposta da Viroli non pecchi, ancora una volta, di eccessivo ottimismo. Del resto, già i tre saggi ora esaminati si confutano in parte a vicenda. Per fortuna: sarebbe un vero guaio se non fosse così. Colpisce piuttosto l'analogia della domanda che essi rivolgono a Rousseau: conciliare interessi personali e collettivi, diritti individuali e ordine politico, libertà e giustizia. De te fabula narratur...

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