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L' Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed età moderna - Marino Berengo - copertina
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L' Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed età moderna - Marino Berengo - copertina
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Descrizione


Il punto di partenza di ogni studio sulla società urbana europea è la definizione del concetto di città. Ma su quali parametri costruire questa definizione? Se ne possono elencare molti: i requisiti costituzionali ed ecclesiastici, il numero di abitanti, la presenza o meno di una cinta muraria. Nessuno di questi parametri, però, è soddisfacente, e Berengo ne sceglie un altro, l'autocoscienza dei cittadini che si riconoscono come tali. L'opera si presenta quindo come una storia, più che delle città, dei cittadini e dei problemi della società urbana, per la precisione, di quella sviluppatasi fra il XII secolo e la guerra dei Trent'anni. Tra gli argomenti: la vita pubblica, l'organizzazione del lavoro, le classi sociali e le tipologie di città.
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Dettagli

1999
2 novembre 1999
890 p.
9788806148102

Voce della critica


recensioni di Vallerani, M. L'Indice del 2000, n. 02

L'Europa delle città è un grande libro di storia, una summa incomparabile ad altre opere del genere per mole e ricchezza bibliografica. È anche il "libro di una vita" di un grande storico come Marino Berengo, il risultato di una lunghissima ricerca durata circa un trentennio, in un dialogo ininterrotto con la storiografia europea sulle città. Ma soprattutto questo libro è il resoconto molto personale di un viaggio, immaginario nelle forme ma reale nella sostanza, attraverso le infinite varietà che ha assunto la realtà urbana nell'Europa medievale e moderna. La metafora non è nostra. Il soggetto che ha in mente Berengo nel dispiegarsi delle mille pagine di analisi fittissime di dati, esempi, situazioni, eccezioni e varianti locali, è realmente un ipotetico viaggiatore che attraversa le città, ne osserva le strutture e gli aspetti di vita più diversi, e allo stesso tempo valuta le informazioni che riceve dalle fonti, la loro credibilità e rappresentatività. Un viaggiatore-storico, dunque, che si fa delle domande e cerca le risposte nell'osservazione continua e non preconcetta delle realtà urbane.
Un atteggiamento così disincantato, si direbbe quasi di ostentata ingenuità (Berengo evita qualsiasi dibattito su che cosa sia una città, confidando in un'intuizione di Roberto Sabatino Lopez, "è l'autocoscienza degli abitanti a rendere tale una città"), non è affatto comune nel panorama storico italiano ed europeo. Anzi può risultare sconcertante per quei lettori più impegnati che si aspettano da un libro del genere una "sistemazione ragionata" di un tema vastissimo e di difficile comprensione nelle linee generali. Non è così: L'Europa delle città è un libro senza introduzione, senza conclusioni, senza schemi interpretativi guida, si direbbe senza tesi da dimostrare. È invece una grande opera di empiria storica, una ricerca dei tratti costitutivi della realtà urbana che si avvale di numerosissime esemplificazioni senza per questo creare modelli, prende in esame centinaia di città senza supporre sistemi o reti urbane, tratta di Stati e principati senza cedere a ricostruzioni esclusivamente "nazionali". L'aiuto fornito dalle bibliografie locali, stratificate nel corso dell'ultimo secolo, è ingente ma anche strumentale, perché non serve tanto a discutere criticamente aspetti specifici delle città europee, quanto piuttosto ad alimentare l'ininterrotto esercizio di osservazione dei diversi segmenti di vita urbana presi in esame.
Un libro siffatto pone problemi di lettura, anche perché l'indice non aiuta a seguire un percorso preciso, ma si limita a individuare grandi temi: le tipologie di città secondo le forme del potere (città capitali e città suddite); le stratificazioni interne (patriziati e nobiltà, professioni, mestieri e corporazioni artigiane); i limiti e i confini sociali (gli esclusi e l'ordine pubblico); le strutture di inquadramento ecclesiastico.
Come orientarsi dunque? Seguire il percorso proposto potrebbe essere la via più semplice, lasciando poi che il lettore ritagli al suo interno temi e prospettive più personali. Eppure la sfida posta da Berengo merita risposte meno passive di un lettore-spettatore. Anche senza affrontare questioni di metodo, che pure il libro suscita in abbondanza (è possibile parlare di una "civiltà urbana" come soggetto autonomo? fin dove può spingersi la comparazione storica? è corretto giustapporre casi di città molto diverse secondo problemi che si presentano formalmente simili ma hanno assunto significati differenti?), ci si può domandare se esistono tratti unificanti di questa civiltà urbana o, meglio, quali sono le caratteristiche di fondo della vita nelle città europee che emergono al termine di questo lungo viaggio. Le risposte non sono semplici, né univoche, né forse pienamente rispondenti al dettato dei singoli capitoli, ma in questo caso vale la pena tentare una forzatura interpretativa.
Incominciamo dal primo dato strutturale: le città nascono e sopravvivono in un clima di forte conflittualità, di manifesta ostilità da parte dei poteri esterni. Gli Stati e le monarchie odiano le città, ne diffidano, le vorrebbero meno organizzate, meno autonome e naturalmente meno politiche. Anche la città capitale - anzi soprattutto questa - è il più delle volte una città vinta, repressa brutalmente da un potere sovrano che ne ha ridotto la capacità di resistenza e di autonomia, ne ha compresso, fin quasi a eliminarli, i caratteri di "comune" o di comunità, per farle assumere le funzioni ben diverse di una capitale: centro di servizio di una corte che governa una nazione e non semplice residenza di un re. Le capitali in altre parole sono costruite, ma sono anche imposte contro il volere dei cittadini: Vienna, Parigi, Londra, Lisbona, Napoli pagarono un pesante tributo alla loro trasformazione in capitale.
Anche le città suddite sono spesso oggetto di violente repressioni, ma trovano un comune denominatore nella ricerca, a tratti spasmodica, di segni di distinzione politica. Non sempre, anzi in casi relativamente ristretti, il fine della resistenza si traduce in una maggiore autonomia; piuttosto si tratta di un processo conservativo delle proprie identità urbane, visto che per molti centri europei di taglia medio-piccola era in gioco proprio la qualifica di città, che poteva essere tolta dal principe come punizione, oppure venduta a signori per ripianare debiti. Questo avviene con intensità maggiore nelle città dell'Europa centrale, nelle terre dell'Impero, meno in Italia dove le caratteristiche urbane erano fissate ormai da lungo tempo e difficili da modificare.
Anche la vita politica interna si può leggere in termini di un lungo processo conflittuale che si sovrappone a quello fra città e Stato. Si tratta di un conflitto lungo e intenso tra forme del potere comunitarie e tendenzialmente aperte e una gestione chiusa, riservata ai ceti aristocratici. La "vita pubblica" è la storia di questa altalenante dimensione politica della città: le assemblee deliberanti, i consigli larghi delle città italiane segnano un limite estremo di auto-organizzazione della popolazione urbana in forme di rappresentanze allargate. Nelle città tedesche e francesi questi consigli, quando furono ammessi, restarono comunque ristretti e selezionatissimi. Perdura tuttavia una diffusa paura verso il consiglio come luogo di discussione pubblica e incontrollata, dove più facilmente la scintilla della rivolta poteva incendiare popolazioni urbane escluse formalmente da ogni processo decisionale. La permanenza di questa tensione lungo tutto il tardo Medioevo ci induce a pensare che il diritto alla parola fosse una posta importante per la cittadinanza, indipendentemente dalle capacità espressive delle istituzioni urbane. Si capisce anche come e perché questa pressione informale ma potente fosse incanalata più facilmente nelle strutture corporative, nelle società di arti e mestieri, nelle gilde, nelle crafts, e come proprio contro le corporazioni si scatenasse una lunga lotta di potere condotta dai monarchi, dai potentati regionali e dalle aristocrazie locali, sia per ridurre il loro peso politico, sia per sottrarre a esse il controllo della produzione e del commercio.
Ma la città non funziona solo da contenitore di conflitti. Al suo interno sviluppa una straordinaria capacità di "definizione" e di "differenziazione" tra persone, ruoli sociali, gruppi politici, strati economici, e questa può essere la seconda grande chiave di lettura del libro. Tutti i capitoli dedicati alle strutture sociali urbane mettono in luce questa potente attività classificatoria della città. Mostrano in altre parole come la vita associata e concentrata delle città europee consentiva e al contempo richiedeva una continua opera di separazione e di classificazione, attraverso un linguaggio fondato sulle distinzioni funzionali e di ruolo. Si tratta di una grammatica sociale che oggi facciamo fatica a ricomporre con i soli dati linguistici desunti dalle fonti e che, invece, l'atteggiamento di nuda osservazione dei fatti di Berengo aiuta a rilevare più di quanto una rigorosa suddivisione tematica poteva forse permettere. Di certo questo processo di distinzione regolava gli assetti sociali interni alle città, a partire dall'individuazione di strutture verticali che identificavano il ceto dominante attraverso segni di riconoscimento non sempre espliciti. La gelosa distinzione tra patrizi e nobili delle città tedesche, ad esempio, rimanda a un concetto di preminenza sociale che si vuole esterno alla città e non implicato negli affari amministrativi: a differenza delle città francesi e italiane, dove la formazione di un patriziato urbano di governo trovava nella gestione riservata degli affari pubblici un immediato criterio di nobilitazione sociale. Il processo di distinzione riguarda comunque tutte le sfere delle attività umane. Le professioni vivono di queste capacità di differenziare ruoli che ricadono sotto una sola denominazione ma sono esercitati da persone diverse: giudici come avvocati e giudici come funzionari; avvocati come esperti di diritto e procuratori come assistenti; medici di alto livello e chirurghi-barbieri; notai di penna e notai come notabili-funzionari. Una ricchezza di senso sociale che accompagna il mondo dei mestieri, anzi trova una vera apoteosi di complessità di livelli che si concentrano sotto le qualifiche incerte delle corporazioni. Una linea di separazione attraversa quasi tutte le specializzazioni e divide la parte manuale e artigiana del mestiere da quella di intermediazione commerciale. La distinzione tra artigianato e mercatura è dunque reale e fonte di polemiche continue. Un confine sottile ma immediatamente percepibile divideva, ad esempio, la condizione dei tessitori, ormai concentrati nella vendita, da quella dei cuoiai, più legati al lavoro tecnico; così come i macellai costituivano ormai un ceto di medi possidenti spesso assestati nelle fasce alte del mondo corporato, anche per il rilievo politico dell'arte. In sostanza ricadeva sull'artigianato una nota di inferiore dignità politica e dunque un limite quasi naturale alla piena partecipazione al governo della città. La separazione tra arti maggiori e arti minori, operante in molte città europee, metteva al sicuro l'oligarchia dei grandi mercanti dal resto della popolazione urbana.
La città è un universo dove le differenze si costruiscono sulle condizioni individuali e dove i confini tra attività e ruolo sociale sono labili, ma permangono ugualmente osservabili grazie a una pluralità di indizi "in corpore personarum". La distinzione fra povertà vergognosa e mendicità costituisce un altro esempio della capacità di classificazione empirica della società.
Anche il mondo ecclesiastico, che avvolgeva la città in una rete a più strati di inquadramenti religiosi e di pratiche devozionali assai diversificate, era attraversato da questo duplice movimento di conflitto e di separazione. Anzi proprio la creazione di nuovi ordini e di nuove forme di partecipazione dei laici nella seconda metà del Duecento fecero entrare in corto circuito le gerarchie interne della chiesa secolare già complicate da una non chiara distribuzione dei compiti tra capitolo e vescovo. L'accesso alle cariche ecclesiastiche maggiori si rivelò motivo di ulteriori conflitti: lo sbarramento in base a criteri di nobiltà o di prestigio sociale non faceva che riprodurre nella struttura ecclesiastica le divisioni più ampie su cui era fondata la società cittadina.
Ma i capitoli sulla chiesa ci schiudono un altro possibile percorso di lettura, che qui solo accenniamo, vale a dire le commistioni e le confusioni volontarie tra Stati diversi e forme di vita in apparenza separate. E non si allude tanto alla distinzione spesso difficoltosa fra chierici e laici, quanto piuttosto alla molteplicità dei piani di ingerenza dei laici nella vita delle chiese: dai giuspatronati alle confraternite, che conferivano valenze religiose a solidarietà sociali e politiche trasversali rispetto alle gerarchie esistenti. Si formano nuovi punti di attrito, ma questa volta i conflitti sono destinati a creare nuove zone di integrazione, rimescolando le carte di quel lungo sforzo definitorio che aveva dato ordine alla vita associata.

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