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Ferdinando Maria Perrone da casa Savoia all'Ansaldo - Paride Rugafiori - copertina

Dettagli

1992
1 marzo 1992
XVI-280 p., ill.
9788802045009

Voce della critica


recensione di De Luna, G., L'Indice 1993, n. 3

Alla sua nascita, il 10 gennaio 1847, Ferdinando Maria Perrone era solo il figlio di un "garzone di camera" del duca di Genova; quando muore, il 9 giugno 1908, è l'uomo guida dell'Ansaldo, la più grande impresa meccanica italiana di fine Ottocento. Chi volesse strappare il segreto di questo successo alle pagine del libro che Paride Rugafiori ha dedicato a Perrone resterebbe molto deluso. Niente di quel percorso biografico si lascia intrappolare in una formula. Rugafiori, anzi, si compiace a sottolineare gli ondeggiamenti, i momenti di crisi, le brusche svolte del "destino" del suo personaggio,: in uno scavo psicologico che presenta anche brani di grande finezza letteraria e che ci restituiscono un itinerario "talmente mobile e variato da evitare allo storico ogni rischio di determinismo". In particolare le prime iniziative di Perrone si inscrivono in coordinate di assoluta precarietà, tali da non lasciar presagire assolutamente il suo ruolo futuro di "capitano d'industria": volontario con Garibaldi nel 1866, giornalista pubblicista, condannato per truffa il 23 aprile 1869, il giovane Perrone respira le impazienze di una generazione che "sta facendo l'Italia" senza slanci particolari e senza molte concessioni alla "morale eroica" che infiammava molti suoi coetanei. Un primo "segno" premonitore che lascia trasparire alcune delle costanti che si ripeteranno nella sua vicenda esistenziale risale al 1872, quando Perrone, 8 venticinque anni, si imbatte nel marchese Alessandro Paulucci, diventandone procuratore generale e amministratore unico del patrimonio familiare. Il rapporto affettivo che si instaura con il marchese non è chiarissimo: da parte di Paulucci ci sono slanci paterni e momenti di un'affettività totalmente dispiegata; da parte del giovane Perrone c'è come un riserbo di fondo, un dosaggio attento di sentimenti ed emozioni. Alla sua nascita si era vociferato di una possibile paternità proprio di quel duca di Genova alla cui persona il padre "ufficiale" Luigi, era addetto; ora ad un possibile padre "vero" e a quello "finto" se ne affianca un altro "adottivo". Come se non bastasse, Perrone, che come tenace autodidatta ha avviato per conto proprio un intenso programma di studi di economia politica ed agronomia, incontra l'economista Luigi Luzzatti, diventandone segretario nell'agosto 1875. Con una figura - guida dal grande fascino intellettuale il cerchio dei "padri si chiude. Paulucci e Luzzatti aiutandolo, l'uno sul piano finanziario, l'altro su quello culturale, ne mettono in luce quella che è per adesso l'unica vera risorsa messa in campo nella sua scalata sociale: la "capacità di rendersi gradito agli altri", dando il meglio di se stesso nelle relazioni "intime e affettive".
Grazie a questa capacità Perrone ha ottenuto - nel marzo del 1874 - in affitto da Paulucci la tenuta agricola di S. Leonardo a Castellazzo Bormida. Un rapporto forte con la terra era, allora, il trampolino di lancio ideale per l'accesso alle élite del potere. Pure, la linearità che ha scandito le prime tappe di quella che sembrava un'irresistibile arrampicata sociale, subisce una prima brusca interruzione. Perrone, dopo una serie di infortuni finanziari, lascia Castellazzo Bormida per prendere in affitto una tenuta nel comune di Leno vicino a Brescia. Ma neanche questa azienda riesce a decollare. Soprattutto niente lascia presagire uno sviluppo che gli permetta di sottrarsi a una sorta di "aurea mediocritas". L'Italia agricola di fine Ottocento non si presta a spettacolari arrampicate; una minoranza che tenta di introdurre i metodi di un'agricoltura avanzata e dare avvio a un'industria moderna non basta a rompere la complessiva opacità di una società statica a forte impronta conservatrice, dominio assoluto di un ristretto gruppo dominante aristocratico-borghese. Per Perrone - che nel frattempo si è sposato e ha messo al mondo due figli - sembra prospettarsi un'esistenza di assoluta routine all'ombra dei suoi protettori.
E invece, nel gennaio 1885, con una decisione tanto improvvisa quanto gravida di conseguenze, questa quotidianità così intrisa di normalità si interrompe con l'emigrazione in Argentina. È la prima forzatura in un quadro di scelte fino ad allora delineatosi senza sussulti. Perrone, arrivando, trova un paese in rapido sviluppo, con un'economia in forte movimento, una colonia di connazionali fiorente e rispettata, delle condizioni ottimali per riprendere un percorso che in Italia sembrava indirizzato su un binario morto. Perrone è bravissimo a mostrarsi "più 'criollo' che 'gringo', nel farsi sentire dai nativi più simile a loro che non ai propri connazionali immigrati". Partecipa con intensità ai "riti" sociali della nascente borghesia argentina, ne condivide l'attrazione culturale verso l'Europa e, più prosaicamente, la febbrile passione per le speculazioni in Borsa, così che a dieci anni dal suo arrivo, lo si può tranquillamente definire "un uomo di solida, sebbene non ricca condizione finanziaria e sociale, ben inserito nella società 'criolla', forte di una rete di relazioni tra gli esponenti dell'élite politica, esperto delle regole del gioco politico ed economico, pratico del funzionamento della macchina amministrativa statale". È questo il Perrone che, a quasi cinquant'anni, coglie l" 'occasione" , l'attimo fuggente per imprimere una svolta alla propria vita. È il luglio 1894, entra in contatto con l'Ansaldo, la grande industria meccanica di proprietà, dal 1882, di Giovanni e Carlo Marcello Bomprini. Esattamente un anno dopo, per suo merito esclusivo, il governo argentino acquista dall'impresa genovese l'incrociatore corazzato Garibaldi di 7.400 tonnellate. È la prima commessa all'estero per l'Ansaldo e per l'industria italiana in generale: "in pochi mesi don Fernando Perrone ha compiuto quello che ai Bomprini pare un vero miracolo". Un mediatore, quindi, capace di essere bene accetto a tutte le parti in causa; questo era stato fino ad allora Perrone sul piano esistenziale e questo diventa ora compiutamente sul piano professionale. Colpisce che - come scrive l'autore - "il non industriale Perrone che ha sempre ignorato l'industria, la tecnica meccanica e siderurgica, i processi produttivi" sfondi immediatamente in quel settore sfruttando una precoce consapevolezza sulla necessità vitale "di un'attività di pubbliche relazioni, di una strategia con al primo posto la capacità di operare in tempo reale, come richiede l'era della progressiva unificazione del mercato internazionale..."
Da quel momento l'ascesa di Perrone non conosce più pause e rallentamenti. Nell'agosto 1895 è nominato rappresentante con pieni poteri dell'Ansaldo per l'America del Sud e il Messico con uno stipendio di 100.000 lire annue. Nel dicembre 1895, undici anni dopo la sua partenza dall'Italia, torna in patria e vi resta per due anni. È l'ispiratore e il pilota dell'operazione che porta i Bomprini ad acquistare il quotidiano di Genova "Il Secolo XIX", occupandosi in prima persona attivamente della conduzione amministrativa del giornale fino a quando gli stessi proprietari - ripetendo atti di generosità che nella biografia di Perrone si incontrano spesso - glielo "regalano" come segno di benevolenza e di riconoscenza. Con una posizione di rilievo nell'Ansaldo e con la proprietà di un importante organo di stampa, Perrone irrompe immediatamente nel cuore del complesso intreccio tra politica e affari che funestava l'Italia di quel "finesecolo" con una immediata conseguenza: inquisito dalla magistratura, perquisito con il sequestro della corrispondenza privata, nel 1897 viene coinvolto con Francesco Crispi e Filippo Cavallini, nello "scandalo" nato dalle rivelazioni di Luigi Favilla, arrestato nel settembre 1896 per i pesanti ammanchi emersi dalla contabilità del Banco di Napoli e prodigo di confessioni sui prestiti concessi, le pressioni di Crispi, l'addomesticamento delle ispezioni, mentre dall'inchiesta emergono imputazioni a carico di Crispi anche in relazione alla gestione del Banco di Como.
Nel libro, tuttavia, questa parte delle iniziative di Perrone e più in generale il quadro affaristico della politica nella crisi di fine secolo resta un po' in ombra. La biografia di Perrone poteva diventare in questo senso una sorta di osservatorio privilegiato verso uno squarcio di realtà che sembra appartenere ai "caratteri originari" del sistema politico di questo paese. Invece Rugafiori ha preferito non attardarsi sul tema e seguire l'attività di Perrone che ha ormai assunto le cadenze febbrili di chi è consapevole di avere il successo a portata di mano e aspetta solo di coglierlo e assaporarlo fino in fondo. Nel 1898, così, torna in Argentina, mentre proprio a causa della sua impazienza comincia a delinearsi un certo raffreddamento di rapporti con Bomprini. La sua posizione nell'azienda è ormai di assoluto rilievo grazie alla grande abilità di venditore: il 6 maggio 1902 Ferdinando lascia l'Argentina; il 25 settembre compra da Raffaele Bomprini "la terza parte del sesto" dell'Ansaldo, diventandone socio capitalista, nonché "direttore e rappresentante generale per l'estero". In tale veste Perrone è l'ispiratore delle grandi manovre che portano l'Ansaldo a consorziarsi con il colosso inglese dell'Armstrong creando, nel 1903, la società Ansaldo Armstrong, destreggiandosi in un furibondo conflitto concorrenziale con la Terni, diventando un punto di riferimento importante per lo schieramento politico che sostiene il "decollo" giolittiano. Nel 1905, in posizione paritetica con il socio inglese, Perrone è al vertice dell'azienda; a lavorare con lui chiama anche i figli, intrecciando famiglia e impresa in un solido impianto. A quel punto la scalata è finita; gli restano tre anni di vita che spende da protagonista, coinvolgendosi in mille altre iniziative, puntando sull'autosufficienza finanziaria da un lato e sull'incremento delle vendite, dall'altro. L'Ansaldo, in quegli anni, cresce con il suo leader, in una dimensione di sviluppo complessivo che porterà l'Italia ad occupare una quota del mercato internazionale per navi da guerra e artiglieria navale pari al 9 per cento (vicina alla quota dei francesi, 9,4 per cento, lontana da quella degli inglesi, 63,2).
Quando muore può ritenersi soddisfatto della sua stagione. Grandi doti di simpatia umana; capacità mimetiche; lucidità sul ruolo dell'immagine e della comunicazione nell'industria moderna; scelte politiche ministeriali, tese a garantire sempre una buona sintonia con chi governa: su questi elementi ha costruito la sua fortuna di imprenditore. Niente di epico e di grandioso, quindi; dalle pagine di Rugafiori, sotto le spoglie di un "pioniere" del decollo industriale sembrano affiorare nitidamente i tratti di una borghesia imprenditoriale che ha celebrato i suoi trionfi affaristici, politici ed esistenziali nei "nostri" anni ottanta, ad un secolo dalla morte di Perrone.

recensione di Lamberti, M.C., L'Indice 1993, n. 3

L'eccezionalità della figura di Ferdinando Maria Perrone, la spettacolarità della sua ascesa sociale, la posizione economica e il potere raggiunti giustificano naturalmente la presenza di uno studio a lui dedicato nella collana Utet intesa a costruire "la storia della nostra società nazionale, a partire dal compimento dell'unità, attraverso le biografie di personaggi scelti fra i più rappresentativi in ogni campo della civiltà". Tuttavia degli argomenti che si possono proporre per la presentazione e l'esame di questo volume vorrei lasciare da parte quelli che riguardano il contenuto specifico della vicenda perroniana: quanto è stato prodotto in questi anni ha confermato, se mai fossero persistiti dubbi, come l'interesse e la bellezza di un'opera biografica siano relativamente indipendenti dal protagonista cui è dedicata. All'interno dei limiti imposti dalla documentazione, essa - ben lungi dall'essere emanazione quasi diretta della vita del suo soggetto o delle carte che ne sono rimaste - è frutto delle capacità immaginative ed interpretative dell'autore che vi ha posto mano, e in relazione a queste prima di tutto e soprattutto chiede di essere considerata. Un tipo di analisi cui ha diritto in particolare un lavoro come quello di Paride Rugafiori, che ha rinunciato a profittare del facile fascino sprigionato dalle storie di ascesa e di successo, per assoggettarsi ad uno sforzo onesto e faticoso di comprensione del personaggio, piegandosi a fare i conti con tutte le tracce che ne sono rimaste, anche le più inquietanti e contraddittorie, e cercando, nella ricostruzione del mondo che circonda Perrone e in cui egli si muove, spiegazione e senso al suo comportamento; che infine ha accettato di sperimentare e modificare, in base alle risposte provenienti dalle fonti, anche la propria idea di uomo.
Due, e strettamente legate l'una all'altra, mi sembrano infatti le provocazioni primarie che si impongono a chi si appresta a scrivere una biografia storica e accetta di raccogliere fino in fondo la sfida di una documentazione più bizzarra e sconcertante, nella sua casualità ed eterogeneità, di quella che in genere si affronta quando si intraprendono altri tipi di ricerca. La prima - giustamente messa in luce da Giovanni Levi nel suo saggio "Les usages de la biographie" (in "Annales E. S. C.", 1989, pp. 1325 - 36) e sottolineata da Rugafiori nella sua premessa - riguarda il rapporto tra individuo e contesto: nell'intrecciare i fili che li legano l'uno all'altro si spende gran parte della fatica del biografo e dalla maestria nel farlo si valuta la riuscita della sua impresa. Vorrei anzi aggiungere che proprio in questo sforzo va cercato e misurato il suo contributo al progresso della disciplina storica. Nel momento in cui utilizza le sintesi più o meno ampie dei suoi colleghi per dare spiegazione e significato al comportamento dell'uomo che è oggetto del suo studio, egli compie infatti un'operazione essenziale di verifica e di sperimentazione dei modelli da essi creati, valorizza aspetti dello sfondo appena segnalati o lasciati in ombra come irrilevanti, sottolinea manchevolezze o vuoti da riempire, segnala lo iato tra esigenze di esplicazione e strumenti disponibili per soddisfarle: suggerisce dunque nuove vie alla ricerca. Si può addirittura pensare che lo sviluppo della scienza storica possa essere misurato in qualche modo dalla capacità che essa ha di dare sempre più sostegno alla biografia, riducendo a poco a poco i margini entro i quali è costretta ad esercitarsi la libera immaginazione: aveva in mente un progresso del genere Arnaldo Momigliano ("Lo sviluppo della biografia greca", Torino 1974, p. 110), quando dichiarava che forse possiamo aspettarci sul lungo periodo che la prima "assorba" la seconda "senza lasciare residui"? In ogni caso, di fronte ai rischi connessi allo sviluppo relativamente anarchico dei vari rami della storia, alla crescente loro autonomia, la biografia continua a rappresentare un richiamo alla concretezza, avvertimento ed antidoto salutare contro gli eccessi della frammentazione tematica e della specializzazione.
Ma la posta in gioco è ancora più alta. Nel momento in cui affronta il racconto intero della vita di un uomo, l'autore è costretto a raffrontarsi con la propria concezione di uomo e di società: quando, sulla base della documentazione incontrata, cerca di dare movimento al suo manichino, è molto probabile che debba metterla in discussione, che sia costretto a cercare aiuto nei modelli offertigli dalle altre scienze sociali, alle quali apre così altri campi di sperimentazione. Ne ricava innanzitutto vantaggi di crescita privata e professionale; ma la sua posizione non è necessariamente solo parassitaria: se le sue incursioni possono apparire arbitrarie ed esporlo all'accusa di dilettantismo - un sospetto da cui si è sentito toccare anche uno storico della grandezza di Edward P. Thompson - la sua condizione può per altro verso apparire privilegiata, libera com'è dalle pastoie delle diverse scuole, spesso imbrigliate nelle gabbie interpretative di loro stessa creazione.
Naturalmente non tutte le biografie rispondono a queste attese; anzi si può dire che nella loro massa imponente si nascondano prodotti di svariatissimo valore, con una escursione tra il buono ed il cattivo che non ha forse riscontro in alcun altro settore storiografico.
L'impresa di Rugafiori non è stata facile: imponente la ricerca archivistica, complicata anche dalla varietà dei campi di azione del protagonista; puntuale e funzionale alla comprensione del quale è la ricostruzione dei contesti (in particolare gli ambienti governativi italiani della seconda metà dell'Ottocento, l'eccezionale congiuntura economica e politica dell'Argentina, il mercato internazionale su cui l'Ansaldo aspira a riversare la propria produzione, la famiglia, l'azienda); psicologicamente attendibile e convincente la delineazione del cammino di Perrone, nelle sue svolte e nella sua continuità; meritorio lo sforzo per non trascurare nessuna delle notizie raccolte, cercando aiuto interpretativo anche al di fuori della storia. La mia scarsa competenza sugli argomenti approfonditi da Rugafiori non mi permette di valorizzare quanto sarebbe desiderabile il contributo specifico che si ricava dalla sua analisi, ma per una persuasiva misura dello sforzo compiuto basta scorrere la bibliografia chiamata in causa - lavori di sintesi molto aggiornati accanto ad opuscoletti locali di difficile reperimento - per arrivare ad un quadro d'insieme che riceve dall'interazione con la documentazione biografica nuove luci e dettagli.
Vorrei ancora richiamare l'attenzione sull'analisi del personaggio, aperta a tutte le suggestioni delle fonti e nello stesso tempo vigile nei confronti di etichette e categorie interpretative troppo rozze o anacronistiche. Esemplari a questo riguardo le pagine sul rapporto di Perrone col marchese Paulucci: un legame di significato opaco e ambiguo per lo spettatore di oggi, che Rugafiori illumina appoggiandosi a studi sui ceti emergenti borghesi dell'Ottocento, "che nei valori della nobiltà cercano modelli culturali e conferma sociale", ma anche non disdegnando aprioristicamente i suggerimenti della psicoanalisi. La psicobiografia da cui egli ha preso le distanze nella prefazione - e giustamente, anche perché si sarebbe imprigionato in modelli troppo stretti che rischiavano di sacrificare una parte delle testimonianze - non viene accantonata senza averne tentate in qualche modo le potenzialità. Così come sono messe alla prova le risorse della "network analysis" - accusata per altro di non tener conto in modo sufficiente del peso che la personalità dell'individuo e la sua capacità di richiamare la simpatia altrui hanno nella costruzione delle reti di relazione; e come infine non vengono tralasciati i suggerimenti della scienza medica, per spiegare almeno alcune sfumature della depressione in cui ricade periodicamente Perrone al culmine della sua fortuna.
Purtroppo la collana in cui l'opera è uscita ha imposto all'autore una separazione tra racconto e note che - se ha reso il primo più scorrevole e gradevole per il lettore che vi cerca soprattutto la bella storia di vita - non manca di portare con sé qualche svantaggio: nel testo sono comunicati quasi esclusivamente i risultati del complesso scontro e confronto tra carte perroniane, ricerche storiche disponibili, modelli sociologici e psicologici; e chi crede che nell'esplicitazione di questo gioco sia la parte più istruttiva dell'operazione biografica può rammaricarsi di trovarlo annunciato nella prefazione e poi spesso sviluppato nel ricco e stimolante apparato di note, non richiamate puntualmente dalla parte narrativa. Ma è caratteristica formale che ovviamente nulla toglie all'interesse del lavoro, non ne pregiudica i meriti e in particolare non sminuisce quello che, a mio avviso, ne è il principale pregio: il rifiuto a lasciarsi imprigionare nel genere biografico senza interrogarsi sulla funzione che esso ha all'interno della storia e delle scienze sociali, suggerendo in concreto alla difficile e ancora aperta questione una risposta corretta e convincente.

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