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Ferito a morte - Raffaele La Capria - copertina
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Ferito a morte

Descrizione


Un libro di iniziazione, di rivelazione e di scoperta dal valore universale.

«Testimonianza vibrante di quegli irripetibili anni Cinquanta napoletani e italiani - teneri e sfacciati, avviticchiati e svaniti come i giri di un cavatappi - e fedelissima alle loro sfumature più dolorosamente superficiali ed effimere, Ferito a morte è anche un classico. È un libro straordinario, che fonde perfettamente natura e storia, coerenza strutturale della costruzione narrativa e impalpabile poesia del fluire della vita, percezione sensibile e critica politica, l'istante atemporale dell'epifania esistenziale e la storicità (entrambi incarnati in una Napoli mitica e reale), pessimismo e felicità, compresenti nel cuore come nella seduzione del mare, fisicità immediata e riflessione.» Claudio Magris

La vicenda narrata in Ferito a morte si svolge nell'arco di circa undici anni, dall'estate del 1943, quando, durante un bombardamento, il protagonista Massimo De Luca incontra Carla Boursier, fino al giorno della sua partenza per Roma, all'inizio dell'estate del 1954. Tra questi due momenti il racconto procede per frammenti e flash, ognuno presente e ricordato, ognuno riferito a un anno diverso, anche se tutti sembrano racchiusi, come per incanto, nello spazio di un solo mattino: la pesca subacquea, la noia al Circolo Nautico, il pranzo a casa De Luca… Negli ultimi tre capitoli vi è poi come una sintesi di tutti i successivi viaggi di Massimo a Napoli, disincantati ritorni nella città che «ti ferisce a morte o t'addormenta, o tutt'e due le cose insieme»; nella città che si identifica con l'irraggiungibile Carla, con il mare, con i miti della giovinezza. Se, come ha scritto E.M. Forster, «il banco finale di prova di un romanzo sarà l'affetto che per esso provano i lettori», quella prova Ferito a morte l'ha brillantemente superata: libro definito dal suo stesso autore «non facile», cult per molti critici e scrittori, è stato ed è anche un libro popolare, amato e letto, con grande adesione sentimentale, da lettori che poco sapevano di questioni letterarie, ma vi ritrovavano la loro stessa nostalgia per un paradiso perduto e per una «giornata perfetta».
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Dettagli

2021
Tascabile
2 febbraio 2021
168 p., Brossura
9788804735090

Valutazioni e recensioni

4,28/5
Recensioni: 4/5
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Anna
Recensioni: 5/5
Un capolavoro del modernismo

Inatteso vincitore della quindicesima edizione del Premio Strega, “Ferito a morte” è un romanzo sul passaggio dalla giovinezza all’età adulta, dall’illusione alla disillusione, nostalgicamente ripercorso attraverso una polifonia di voci che rievoca ricordi di belle giornate e rimpianti per le grandi occasioni mancate, con un continuo andirivieni tra vicende che coprono un arco di undici anni ma che sembrano concentrarsi nello «spazio di un mattino». Nella luce calda e accecante dell’estate napoletana, il colore che predomina è l’azzurro, quello mutevole del mare e quello inalterabile del cielo; ma questa evocazione del mito della giovinezza è solo apparentemente idilliaca, dilaniata dalla scelta del protagonista Massimo tra andarsene e restare, mentre in filigrana si scorgono gli scempi della ricostruzione post-bellica e il fallimento della borghesia meridionale, che cede al potere del denaro e al piacere di apparire, fingendosi ciò che non è. La circolarità dell’impianto narrativo torna anche nello stile di scrittura, fitto di immagini che si ripetono e di parole che si rincorrono per assonanze e consonanze: ed è proprio la complessità strutturale e stilistica che fa di questo romanzo un capolavoro del modernismo.

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Laura
Recensioni: 5/5
Gioiello

Questo libro è colore, musica, rumore, silenzio. Un coro di voci che si sovrappongono e ci dipingono il quadro della Napoli dei circoli, la "Napoli bene" arenata in quello che sembra un pomeriggio d'estate senza fine e senza altre prospettive. L'idea di un futuro diverso fuori dalla città, di doverla lasciare. Immagini di sfolgorante potenza e vitalità luminescente. Ferito a morte è questo e molto altro, vale la pena leggerlo.

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Astrea
Recensioni: 1/5

Un testo frammentario, sconclusionato, che racconta cose che non interessano a nessuno, in uno stile volutamente "attuale" che però suona falso.

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Recensioni

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Voce della critica

Si può celebrare l’anniversario di un libro così come si fa per il compleanno di una  persona o per la data di nascita o morte di un famoso scrittore, atleta, scienziato o qualsiasi altro tipo di personalità? La risposta dovrebbe essere sì se si tratta di un capolavoro e Ferito a morte (168 pagine, 13 euro) di Raffaele La Capria, del quale quest’anno cade il sessantesimo anniversario della sua uscita, lo è. Lo scorso febbraio è uscita per Mondadori nella collana Oscar moderni cult la nuova edizione con prefazione del Premio Strega dello scorso anno Sandro Veronesi. Nei primi giorni di aprile del 1961 l’autore consegnerà all’editore Valentino Bompiani il testo definitivo del romanzo del quale alcuni brani e interi capitoli erano già apparsi su alcune riviste letterarie destando interesse e ammirazione per alcune tecniche di avanguardia fino ad allora pressoché sconosciute nella nostra letteratura (flusso di coscienza, monologo interiore, polifonia).

«Il suo libro mi ha incantato» risponderà Valentino Bompiani all’autore, appena in tempo per pubblicarlo e iscriverlo entro il 30 aprile al Premio Strega di quell’anno, che vincerà con un solo voto di scarto su Delitto d’onore di Giovanni Arpino.

Da allora la fortuna del capolavoro di Raffaele La Capria è stata costante durante tutti gli anni, tanto da far sottolineare all’autore nella sua nota introduttiva alla ristampa celebrativa del 2011 nei classici Mondadori in occasione del cinquantenario del volume, che il fatto che nel corso del tempo il suo Ferito a morte sia stato continuamente letto, rappresenta una notevole eccezione in un’epoca nella quale i libri escono e in pochi giorni vengono dimenticati. È lo stesso concetto espresso da Mario Pomilio in una lettera del 1969 indirizzata dall’autore del Quinto Evangelio a La Capria. Scrive Pomilio:

Non cesso di arrabbiarmi con la nostra situazione culturale, che fa sì che ogni cosa si dimentichi così presto, che passata una stagione fa mettere da parte un libro, sì che si continua così di rado a parlarne. Si fa come i coccodrilli: si mangiano i propri figli, e poi si elevano compianti sulla sterilità della nostra letteratura.

«Un libro magico» lo definirà Pomilio nella stessa lettera, del quale risulta persino difficile parlare senza romperne l’incanto, il rischio che si corre, a meno di non essere poeti, di rendere piccolo ciò che è grande, parlandone appunto, come acqua che sfugge dalle mani e riflessi di luce che si fissano sulla retina solo per una frazione di secondo fissando un’immagine che poi svanisce. Ferito a morte è un romanzo fatto di acqua e di luce, l’acqua e la luce del mare e del cielo di Napoli e del suo golfo che sono lo sfondo della vicenda che si dipana sulle onde dei ricordi tramite la voce del protagonista e gli echi di coloro che lo accompagnano nell’arco di circa dieci anni, dall’estate del 1943, quando durante un bombardamento avviene l’incontro di Massimo De Luca con Carla Boursier, fino al giorno della partenza di lui per Roma all’inizio dell’estate del 1954.

La spigola dell’incipit, «quell’ombra grigia profilata nell’azzurro» che «avanza verso di lui e pare immobile», assume da quella prima pagina il valore simbolico all’intero romanzo, il quale, volendo azzardare una definizione a un qualcosa che non è lecito e opportuno provare troppo a spiegare, perché si tratta di sentirlo, è una riflessione sulla giovinezza perduta, sul trascorrere inesorabile del tempo, sulla felicità e le sue promesse tradite, su La Grande Occasione, La Grande Occasione Mancata e La Scena che:

si presenta sempre identica: lo sguardo di Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare, e lei così vicina – anche il battito del cuore! – vicina, con l’occhio marino aspettando

Il romanzo si apre con l’immagine della spigola e proviene da una battuta di pesca di Massimo nella quale il pesce gli sfuggirà scomparendo in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. L’incontro sotto i bombardamenti tra Massimo e Carla in quella lontana estate del 1943, e poi, nove anni dopo La Grande Occasione Mancata, già esplicitata nelle prime righe, a causa del corpo che non obbedisce e “La Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona”.Questa dissonanza tra il corpo e la mente è l’emblema di un’armonia irrimediabilmente perduta ed è la causa dell’andirivieni della memoria del protagonista alla ricerca delle cause della propria lunga, irrequieta infelicità e instabilità, dovendo imporsi di riconoscere come avviene in uno dei più bei flussi di coscienza dell’intero romanzo:

fanne un mistero se vuoi ma non un dramma

Perché la vita si spiega solo parzialmente e con una fatica tanto inevitabile quanto inutile; si vive, si ricorda, ci si arrovella intorno, se ne recupera il senso a brandelli, a soprassalti, in genere quando è troppo tardi. È quindi un atto mancato che apre il romanzo e ne costituisce il perno attorno al quale gravita tutto il resto, in un continuo trapasso tra passato e presente alla ricerca insistita di quel momento decisivo, di quella deviazione quando è stata imboccata la strada sbagliata e da cui in poi sarà irrecuperabile l’intera verità della vita.

Il romanzo è diviso in due parti. La prima occupa i primi sette capitoli ed è il risveglio in una “Bella giornata”, quando i raggi del sole grattano la volta dell’arcata e si sfilacciano. Siamo nel 1954, poco prima della partenza di Massimo per Roma. Nel risveglio di quella “Bella giornata”, altra topica del romanzo insieme a La Grande Occasione, La Grande Occasione Mancata e La scena, nel dormiveglia, tale è l’andamento sonnambolico dell’intero romanzo, il protagonista rievoca l’incontro con Carla sotto un bombardamento nel 1943, l’incontro fallito “per troppo amore” in una sera di Capodanno sulla spiaggia di Positano, il tentato suicidio di Massimo, la spensierata incoscienza dei giovani della “Dolce vita” napoletana, un pranzo a casa che è quasi un calco di Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo, fino alla partenza di Massimo e i suoi sporadici ritorni nella sua terra abbandonata che dilatano il tempo della narrazione fino al 1960 con diverse sincronizzazioni, come nell’Ulysse di Joyce.

Il tema di questa sorta di nostos omerico, anzi meglio dire appunto  joyciano, vista la complessa struttura e la non consequenzialità temporale del racconto, è la materia degli ultimi tre capitoli, nei quali la stessa narrazione spezzata e rapsodica lascia emergere dal fondo subacqueo della memoria figure indimenticabili quali quella di Ninì, il fratello del protagonista, e Sasà, scavezzacollo e indomito viveur, tutti fotografati nella straziante e dolcissima dissolvenza della giovinezza. Il racconto di Massimo “tecnicamente” si svolge per lo più in quella mattina, un unico giorno, quasi come nell’Ulysse joyciano appunto, ma al suo interno, sulle onde della memoria e delle parole poetiche che danno loro forma si attuano quello stesso tipo di sincronizzazioni e prendono vita quei personaggi, e si diffonde quella polifonia di voci che è lo stesso magma letterario del capolavoro dello scrittore irlandese. L’impressione più duratura che rimane di Ferito a morte è l’emozionante confusione delle voci, uno stile e una struttura che testimoniano l’apertura e l’assorbimento di La Capria della lezione appresa dai grandi maestri e innovatori della letteratura del Novecento quali il già citato Joyce, Virginia Woolf, William Faulkner, Alain Robbe-Grillet, contribuendo in tal modo allo svecchiamento della nostra letteratura all’epoca legata ancora ai canoni tradizionali. Allo stesso tempo, l’aderenza e penetrazione di sguardo dell’autore lo debbono includere tra i grandi maestri del realismo, un realismo poetico che si esprime nella sua profondità visiva, grazie alla vividezza del suo fraseggio, alla straordinaria aderenza figurativa e semplicità del linguaggio che imprime sulla pagina un timbro familiare e allo stesso tempo musicale e liquidamente poetico.

La lettura subacquea e da dormiveglia di Ferito a morte, la tecnica compositiva per tasselli mobili, il gioco a incastro dei pezzi che suscitano l’immagine di una figura in continuo movimento, quella stessa “bella confusione” della quale parlerà Flaiano a proposito de La Dolce vita di Fellini, la mancanza di una consequenzialità temporale creano uno straniante e affascinante shock puntillistico che non deve essere considerato un mero esercizio di stile, vista l’innovativa struttura, né, viste le tematiche affrontate, un romanzo intimista, proustiano e malinconicamente e pateticamente sentimentale, poiché nel capolavoro di La Capria si respira la vita, la realtà storica e come in ogni romanzo che si rispetti vi è una precisa cornice sociologica, quella di Napoli, di tale rilievo da intervenire nel titolo stesso del romanzo:

Viviamo in una città che ti ferisce a morte, o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme

È l’eterna lotta tra Natura e Storia, che a Napoli si palesa in modo ancor più virulento, con la Storia che sembra essersene fuggita anche lei, lasciando quella “Foresta Vergine” (altro topos del romanzo), dalla quale magari si tratterà solo di fuggire, come farà Massimo, quella natura sopraffattrice di leopardiana memoria alla cui lotta un’altra grande scrittrice e conterranea di La Capria dedicherà la sua opera: Anna Maria Ortese. Ma mentre nella Ortese “il mare non bagna Napoli”, nel caso di Ferito a morte si può parlare di vero e proprio poema romanzesco del tempo marino, sia strutturalmente che emotivamente. Simbolicamente la stessa casa del risveglio, Palazzo Donn’Anna, ora Palazzo Medina, dove La Capria ha realmente vissuto, si erge su una rocca tufacea che si affaccia sul mare di Napoli.

È comunemente riconosciuto dalla critica che tutta l’opera di La Capria ruoti intorno a Ferito a morte, che pure è il suo capolavoro, che gli altri suoi romanzi siano una ricerca di quell’Armonia perduta (titolo del 1986), la ricerca e narrazione della vita, riconoscendo essa come un’irrimediabile occasione mancata, facendola rivivere sul filo del passato e dei ricordi, fossilizzandoli per quanto possibile in parole indelebili come solo la poesia può fare. Questa è la magia della letteratura e di questo “libro magico” come Marco Pomilio scriverà, dandone la più efficace definizione nella lettera indirizzata al suo autore.

Recensione di Simone Bachechi

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Raffaele La Capria

1922, Napoli

"La parte biografica e indispensabile, e richiesta. Benissimo, allora diciamo: Nato a Napoli nel 1922. E poi? Poi niente. Quando mai a uno scrittore italiano capitano nella vita cose ed eventi memorabili, da raccontare? lo non sono stato cercatore d'oro in Alaska come London, non ho dato la caccia alle balene come Melville, non ho attraversato un tifone con un veliero come Conrad, non ho venduto armi a un ras abissino come Rimbaud, non ho percorso a piedi la Patagonia o l'Australia come Chatwin... E allora? Cosa diciamo? Diciamo che gli scrittori italiani sono quasi tutti sedentari e casalinghi, e lo restano anche se viaggiano occasionalmente qua e la.E così sono stato io. Nient'altro da aggiungere? Possibile che nella tua vita non ci sia proprio niente? Beh, ci sono tante cose, gli...

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