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Descrizione


Il libro propone un percorso nella crisi della Fiat che ne ricostruisce le origini, la dinamica e le conseguenze, sia sul piano dell'assetto aziendale e della famiglia proprietaria, sia su quello di quella parte della società italiana che ne è stata direttamente influenzata. La crisi della Fiat diviene così la chiave di volta per rappresentare la deindustrializzazione dell'Italia del Duemila, e la tendenza alla scomparsa dei grandi sistemi d'interesse e dei maggiori attori collettivi nell'arena politica ed economica.
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Dettagli

2006
14 marzo 2006
207 p., Rilegato
9788804551386

Valutazioni e recensioni

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Antonio Romano
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Il lavoro del professor Berta è la ricostruzione storica dei fatti accaduti dopo il 2000 riguardanti l'azienda italiana più influente degli ultimi 100 anni. Un libro ricco di cifre e di citazioni, corredato da una ricchissima bibliografia. Ho apprezzato le riflessioni personali fatte dall'autore a proposito del significato che ha assunto FIAT nel definire i modelli di organizzazione, di lavoro, di consumi e di sviluppo economico italiani. E' il modello del Nord-Ovest, centrato sulla grande impresa familiare, teso ad escludere chi non facesse parte del ristretto entourage. Questo approccio sine nobilitate del buon salotto del capitalismo italiano non ha favorito lo sviluppo del Sistema Italia quanto meno su scala europea, favorendone il declino economico che tutti stiamo vivendo. L'Italia tutta si accingeva a vivere una serie di vertenze aziendali, anche nell'universo Fiat, dove gli operai ed i loro sindacati hanno avuto la scarsa sensibilità culturale di chiedere solo la salvaguardia di un'occupazione non più difendibile, piuttosto che collaborare alla creazione di un nuovo clima capace di favorire la nascita di un'occupazione di mercato e non dipendente delle committenze pubbliche. La Fiat che ha beneficiato di tanti soldi pubblici non è stata in grado di traghettare la nazione verso le nuove sfide del XXI secolo. Il modello finanziario che soggiace al modello industriale Fiat è stato caratterizzato dall'esclusione di chi non fosse parte della Famiglia Agnelli e del suo ristretto entourage, piuttosto che dall'inclusione delle migliori energie di mercato. FIAT è stata nei decenni scorsi il miglior interprete del "capitalismo italiano non di mercato" provocando tanti danni al tessuto delle PMI italiane. Ma può la nuova Fiat rappresentare il veicolo per una vera modernizzazione del paese? Può creare le basi per una nuova buona occupazione? Sono questioni dalla scottante attualità: agli storici dell'impresa del futuro l'ardua sentenza.

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Voce della critica

Il libro contiene una brillante ricostruzione degli ultimi cinque anni Fiat dall'accordo con General Motors (gm) del marzo 2000 al "divorzio di San Valentino" come lo definì l'"Economist" del 14 febbraio 2005 che sancì la separazione consensuale della società torinese dal colosso statunitense (che le cronache recenti confermano in sempre più grave difficoltà). La ricostruzione è scandita sui ritmi di una cronaca tesa e asciutta che l'autore riconduce comunque con mano lieve ma sicura alle coordinate di medio e lungo periodo della storia aziendale e ai nodi di teoria dell'impresa che il caso solleva. Il quinquennio fatidico che separa inizio e fine dell'accordo con gm è letto infatti alla luce degli ultimi quarant'anni di storia aziendale e di quell'"irrisolto modello di governance dell'impresa" che costituisce osserva lucidamente Berta "il nucleo del problema"; un problema che rinvia a sua volta "ai limiti del capitalismo italiano nella seconda metà del Novecento" come recenti riflessioni sul tema della governance dimostrano. La Fiat ha sofferto di un meccanismo di regolazione che "non distingueva a sufficienza i compiti e le prerogative della proprietà rispetto a quelli del management" per cui l'azienda "non è stata fino in fondo né un modello di family business di capitalismo familiare capace di distinguere le responsabilità degli azionisti dal ruolo operativo dei dirigenti né un modello d'impresa in cui la proprietà riuscisse a far emergere uno stabile nucleo manageriale che identificasse con precisione il proprio raggio d'azione".
Di questo modello l'autore delinea attori e responsabilità maggiori e minori andandoli a individuare anzitutto e in maniera decisiva nell'azionista familiare ma senza perdere di vista il ruolo svolto talora nell'alimentare il circolo vizioso dallo stesso management o da certi atteggiamenti dei soggetti sociali e politici quali le organizzazioni sindacali. Contro la coazione a ripetere di una governance mal registrata mostra Berta vanno ad arenarsi l'ambizioso tentativo "kennediano" di ridisegnare l'impresa operato da Gianni Agnelli a cavallo fra i sessanta e i settanta così come il progetto di comando manageriale forte del "centurione" Romiti del decennio successivo. Con i suoi residui deve fare i conti in un clima profondamente mutato anche l'attuale tentativo di rilancio di un'azienda che sostiene Berta "se supererà definitivamente la propria crisi finirà per uniformarsi di più al profilo di un sistema italiano imperniato invece che sui centri di eccellenza nella ricerca scientifica e tecnologica sui livelli intermedi che diffondono e riproducono conoscenza". C'è da augurarsi che l'autore in questa sua documentata visione sostanzialmente "antideclinista" abbia ragione.

Ferdinando Fasce

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