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Film di Roman Polanski

Film di Roman Polanski

Roman Polanski

1933, Parigi

Nome d'arte di R. Raymond Liebling, regista francese di origine polacca. Nato nella capitale francese, ritorna in patria con i genitori polacchi, che nel 1941 finiscono in un campo di concentramento nazista, dove la madre non sopravvive. Precoce attore di teatro, fa un’apparizione anche sullo schermo prima di iscriversi alla Scuola di cinema di Lodz, dove si diploma nel 1959. Durante gli studi gira alcuni cortometraggi in formato ridotto, ma sono i due saggi di fine corso, Due uomini e un armadio (1958) e La caduta degli angeli (1959), che ne rivelano il talento. P. esibisce fin dagli inizi una carica surreale e un gusto del grottesco derivati dall’interesse per l’arte d’avanguardia e coltivati con la frequentazione di artisti e con una personale esperienza nella pittura. I due uomini che arrivano su una spiaggia dal mare, carichi di un armadio che gli impedisce i movimenti, in Due uomini e un armadio, così come l’angelo biondo e rubizzo in La caduta degli angeli, che piomba dal tetto in mezzo agli orinali dei gabinetti pubblici, rimandano a un microcosmo dell’assurdo, un rivolo di follia onirica venato da evidenti sfumature buñueliane. P. recita come attore in diversi film (anche per A. Wajda) e lavora come assistente di A. Munk per Zezowate szcz?(cie (La fortuna strabica, 1960), prima di trasferirsi nel 1961 a Parigi, dove realizza un altro incredibile cortometraggio, Le gros et le maigre (1961). Torna tuttavia in Polonia e gira Ssaki (I mammiferi, 1962), forse il suo corto più perfetto e premiato, e subito dopo il suo primo lungometraggio, Il coltello nell’acqua (1962), scritto e sceneggiato a quattro mani con J. Skolimowski. Il film coglie immediatamente nel segno, bersagliando con occhio spietato, freddo e quasi astratto, il degenerare delle relazioni tra due uomini e una donna in crociera su una barca a vela, l’affiorare delle ipocrisie, l’esplodere del conflitto di psicologie: una sorta di metafora dei rapporti umani incastonata nella scenografia di un lago che assume a volte le gelide tonalità di un fondale tragico. Ritornato definitivamente a Parigi, il giovane cineasta, dopo aver partecipato a un film a episodi, dirige il suo secondo lungometraggio, Repulsion (1965), quasi la radiografia della fenomenologia schizoide di una donna, che gioca con i canoni del thriller, infiltrati però di sottile ironia e sulfurea comicità. È comunque l’anno successivo che P. trova la sua consacrazione d’autore, realizzando un film dalla ormai piena maturità formale e guadagnando un equilibrio quasi geometrico nel suo sguardo ipertrofico e nella sua cifra visionaria. Cul de sac (1966) si presenta infatti come un mirabile meccanismo filmico in cui si fondono verità e illusione, incubo e sogno, tragedia e humour corrosivo, realtà e paradosso, allegoria, simbologia, gusto dell’assurdo e un nichilismo di sapore vagamente beckettiano. Alcuni personaggi su un’isola deserta, che si lacerano, si dilaniano e sprofondano nel nulla sotto l’occhio algido e insieme beffardo del regista, rimandano a un apologo tragicomico che si carica di un senso traslato e di significati allusivi a un universo scisso, esistenzialmente arido, autodistruttivo. Il film che segue, Per favore... non mordermi sul collo (1967), è una sapida e dissacrante parodia del vampirismo, non priva di un notevole gusto filologico e dall’umorismo nero a volte irresistibile. Approdato negli Stati Uniti, P. realizza una delle sue opere più famose, Rosemary’s Baby (1968), che ottiene un enorme successo di pubblico e anche di critica. Mettendo in scena la storia di una giovane donna intrappolata in una specie di rito di magia nera ordito ai suoi danni con la complicità del marito, il film si muove ai bordi del paranormale, dentro le oscurità misteriose del male, nel continente sconosciuto di una trama diabolica, mischiando minuziose notazioni realistiche con una sfera simbolica dalle venature mistico-stregonesche. La tragica morte della giovane moglie, l’attrice Sharon Tate, assassinata nel 1969 dalla setta satanica di Charles Manson, apre una dolorosa parentesi nella vita di P. che torna dietro la mdp solo nel 1971, dirigendo Macbeth, seguito l’anno successivo da Che? (1972), girato in Italia. Negli Stati Uniti torna a girare due anni dopo, realizzando Chinatown (1974), ambientato a Los Angeles a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, dove un giovane detective (J. Nicholson), che indaga su un delitto maturato tra i boss delle forniture d’acqua, si imbatte in un fosco caso di incesto che finirà in tragedia. Un’opera che si immette con piglio sicuro e con acribia filologica nella corrente dei noir losangelini (già di per sé piuttosto umbratili), nella quale P. riesce a disseminare un surplus di torbidezza, un che di malsano, di ossessivo e di angosciante. Segue L’inquilino del terzo piano (1976), girato in Francia e interpretato da P. stesso nella parte di un piccolo impiegato che progressivamente si identifica con la vita devastata del precedente inquilino del suo modesto appartamento. Un thriller paranormale, tutto costruito su un gioco di allucinazioni, incubi e risvegli nel reale quotidiano, intriso però di ironia e di comicità grottesca. Dopo aver diretto Tess (1979), adattamento del romanzo di T. Hardy Tess dei D’Ubervilles, film inferiore al suo standard abituale, lascia gli Stati Uniti e si stabilisce definitivamente in Francia, dove realizza Pirati (1986), un’opera attraversata da un tocco di umorismo acido, squisitamente «polanskiano», e tuttavia non perfettamente riuscita, malgrado il ricco budget. Degno invece del suo talento il successivo Frantic (1988), di produzione americana, ma completamente girato a Parigi: un thriller teso, vibrante soprattutto nella descrizione dello spaesamento del medico americano (H. Ford) in una città di cui non comprende la lingua, e che pure deve attaversare alla ricerca della moglie rapita da un non meglio identificato gruppo di agenti segreti. Quattro anni dopo dirige Luna di fiele (1992), inquietante storia di erotismo limaccioso, intriso di venature sadomaso, tra due coppie in crociera da Venezia a Istanbul. Subito dopo è la volta di La morte e la fanciulla (1994) dall’omonimo testo di A. Dorfman: un’opera che scava nel feroce retroterra di una dittatura militare, in cui una donna riconosce il suo vecchio torturatore e lo sequestra con l’intenzione di vendicarsi facendogli confessare le sue responsabilità. Nella messa in scena di una crudele dialettica tra vittima e carnefice, appare netto l’interesse di P. verso un’esplorazione delle zone più cupe dell’agire umano, che non ignora certo una ferita ancora bruciante della storia recente (evidente il riferimento all’Argentina segnata della tragedia dei desaparecidos), ma che soprattutto procede in direzione di uno scavo impietoso nelle zone oscure della coscienza individuale. Dopo aver diretto La nona porta (1999), pellicola sottotono, nel 2002 vince la Palma d’oro a Cannes con Il pianista, portando sullo schermo un episodio della resistenza antinazista nel ghetto ebraico di Varsavia: un’opera che affronta un tema che ha segnato indelebilmente la vita del regista fin dall’infanzia e che conquista nel 2003 l’Oscar per la miglior regia. Nel 2005 coniuga fedeltà al romanzo e attenzione nella messa in scena per l’adattamento di Oliver Twist, dall’opera di C. Dickens. (el)

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