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All'alba della civiltà, il libro della Genesi pone l'odio tra due fratelli: Caino, il contadino stanziale, e Abele, il nomade mandriano favorito da Dio. Sin d'allora, la dialettica tra nomadismo e sedentarietà accompagna, secondo il filosofo francese Michel Onfray, tutta la storia dell'umanità, che parrebbe ripetere all'infinito l'eterna violenza delle civiltà sedentarie sulle vite nomadi, dall'aspetto sfuggente e barbaro. Schierandosi decisamente dalla parte dei vagabondi, Onfray propone una "filosofia del viaggio" che riassume in modo piacevole ma forse poco originale il pensiero di chi ha descritto e teorizzato l'arte di viaggiare "dopo la fine dei viaggi". Raccogliendo la lezione di illustri precursori, da Bouvier a Chatwin, da Deleuze a Brunet, la teoria poetica di Onfray parte dalla classica equiparazione tra viaggio e letteratura, che ripetuta in modo schematico potrebbe apparire contraddittoria. Se ogni viaggio nasce dalla lettura di un atlante, di un romanzo o di una poesia, il viaggiatore che non voglia recarsi da turista o da colone nei luoghi a lungo immaginati e desiderati deve però dimenticare le sue letture, per non applicare ai luoghi e alle civiltà che incontra i propri parametri culturali. Il "viaggiatore-poeta" che Onfray crea prendendo a modello se stesso e la "poetica dello spazio" di Bachelard corre però un rischio. Se il viaggio trascorre frettolosamente, nell'attesa di tornare a casa per scrivere le proprie impressioni e il mondo si riduce a quel che si vede dal finestrino dell'aereo, le memorie del viaggio saranno inevitabilmente ricordi di egotismo. Dal nostro atlante letterario, zeppo di viaggiatori sentimentali, si alza allora per contrasto un'altra voce poetica, quella di un pastore errante dell'Asia. Quel pastore, come i grandi viaggiatori del Novecento, approfittava del viaggio per porre alla luna le domande essenziali sulla propria realtà e sulle condizioni in cui tutti gli individui, e non solo lui, sono costretti a vivere.
Stefano Moretti
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