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Dopo il meraviglioso "The downward spiral", Trent Reznor tira fuori un altro capolavoro degli anni Novanta. Un doppio disco micidiale, che col tempo è stato considerato da molti fan come il vero capolavoro dei Nine Inch Nails. Per me, esattamente come il suo predecessore, assolutamente imprescindibile.
She shines in a world full of ugliness. She matters when everything is meaningless. Fragile, she doesn't see her beauty... Un puro concentrato di emozioni, ricchezza compositiva e slendore canoro. Non si può non provare empatia con Trent, le sue paure diventano le nostre paure e anche noi siamo tormentati dalle sue stesse angoscie. Non si può vivere senza quest'album!
THE SMELL OF SUNSHINE. Difficile poter parlare in breve di un disco tanto complesso e ricco di spunti come "The Fragile". Frutto di un interminabile lavoro di Reznor, esito di un parziale periodo non troppo felice della sua vita di musicista, specie in fase di composizione: mr.self destruct infatti fu vittima di una solitaria e soffocante crisi d'ispirazione, che è fluita in qualcosa di totalmente nuovo rispetto al precedente "The downward spiral". Questo doppio CD ci trasporta da abbracci di pianoforte lieve come il profumo del sole all'alba ("the smell of sunshine", canta Reznor in uno dei brani) come avviene in "the frail" o "la mer", il brano preferito di Reznor, ad arpeggiatori selvaggi di synth come in "Somewhat damaged". L'atmosfera è tesa, e l'ascoltatore passa da momenti di stasi a momenti di intensissimo coinvolgimento. La musica è spesso e volentieri violentissima (starfuckers, we're in this together, ...): un incrocio di elettronica e pseudo metal chiamato "industrial" non può certo essere considerato un genere di sottofondo, ha lo shock di un quadro di Munch, e la poeticità celata di un compositore classico, specie in quei toccanti frangenti dove il piano riesce ad emergere tra le bolgie dei synth e delle chitarre distorte, venando le composizioni di una nuova dimensione (la già citata "la mer", "just like you imagined"). Insomma Reznor riprende le idee vecchie di "something i can never have" e le rielabora, creando perfetti bilanciamenti, che sfumano l'uno nell'altro, senza mai interrompersi, passando da canzoni dalla ritmica funkeggiante (il basso di "into the void"), a testi e ritmi da pseudo canzone militare all'americana ("the big come down"), sfornando poi vere e proprie poesie sussurrate con sfondi disegnati da rumori digitali improducibili, degna trasfigurazione sonora di un quadro di H.R.Giger ("The great below"). Un ottimo lavoro, dunque, e un grande coraggio ad uscire come cd doppio nonostante la crisi cd stesse per abbattersi sul mercato da fine anni '90. L.L. (leonida9@virgilio.it)
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