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È un libro illeggibile, senza capo né coda, dallo stile a volte sciatto a volte stucchevole e ampolloso. Povero Garibaldi! Quando mai gli storici accademici italiani impareranno a farsi capire dai lettori e a scrivere in modo piano, limpido e accattivante?
Per chi ama la storia come narrazione ragionata di avvenimenti sono 14 euro buttati via. Non successione di avvenimenti ma immagini, commenti, confronti che si affastellano , mentre il lettore anche se conoscitore dei fatti fatica a ricostruire un nesso. C'è a chi piace questo genere di storiografia. Io non la sopporto
Recensioni
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Nel panorama di pubblicazioni affollatesi nel bicentenario della nascita, questo piccolo (quanto a veste editoriale) ma densissimo volume di Isnenghi è destinato a imporsi per la caratteristica del suo impianto: ossia per l'attenzione alle dinamiche conflittuali e alle tante forme del mito di Garibaldi. La ricostruzione si snoda infatti sia per il tempo del Garibaldi vivo, sia per quello della tradizione garibaldina dopo la sua morte attraverso le innumerevoli voci del canto e le altrettanto innumerevoli, ma contrastanti, voci del controcanto. La narrazione delle imprese garibaldine è affidata alle parole, ai proclami, alle memorie dell'eroe, e ancora alle lettere e ai diari pieni di speranza e di progettualità per il futuro dei suoi seguaci, ma altresì, quasi in un gioco di specchi, ai commenti, alle confidenze, qua e là alle invettive, e alle deprecazioni, di attori-testimoni come Cavour e La Farina, impegnati a eterodirigere le iniziative del generale. Lontano dai luoghi e più avanti anche dai tempi dell'azione, nelle sedi istituzionali della rappresentanza, battaglie politiche e storiografiche si intrecciano nelle posizioni contrapposte dei trasformisti neomonarchici, ex mazziniani e garibaldini (personificati da Depretis e ancor meglio da Crispi) intenti a costruire l'immagine rassicurante del rivoluzionario disciplinato, e degli uomini dell'estrema sinistra (come Bovio e Imbriani) per i quali Garibaldi resta il nome-bandiera e il nume tutelare di un'altra Italia, dell'Italia sognata così diversa dall'Italia che è.
In questa trama di narrazione ampio spazio è lasciato alle parole del Poema autobiografico e dei quattro romanzi di Garibaldi, scritti il primo nei mesi successivi ad Aspromonte, gli altri nel giro di pochi anni, dopo il nuovo scacco di Mentana: testi che costituiscono una sorta di precipitato dell'immaginario garibaldino e a un tempo di stigmatizzazione di una scala di valori negativi. Ormai nel terreno della libertà della memoria, la ricostruzione si dipana in un viaggio in Italia sulle orme delle sue rappresentazioni pubbliche: epigrafi, e monumenti, tanti, precoci, ben visibili e naturalmente destinati a suscitare nei cittadini di ieri e di oggi percezioni e immagini non coincidenti, a seconda della sensibilità di ognuno.
Le riletture del personaggio e del suo mito passano anche attraverso i poeti vati dell'Italia a cavallo tra Otto e Novecento: da Carducci a Pascoli (il più incline a un'immagine edulcorata e di mediazione) a D'Annunzio, che emblematicamente sceglie lo scoglio di Quarto per la messa in scena di una delle principali manifestazioni interventiste del maggio 1915. Il nome di Garibaldi, il suo mito verrà utilizzato dai volontari combattenti nella guerra di Spagna, dai partigiani vicini al Partito comunista nella Resistenza, la sua immagine comparirà nei simboli elettorali del Fronte popolare nelle consultazioni politiche del 1948. Eppure, durante il ventennio si assiste anche a una trasfigurazione della camicia rossa in camicia nera attraverso il ruolo attivo di un esponente della terza generazione dei Garibaldi. Un'analisi del mito emblematicamente riassunta sin dal titolo attraverso il richiamo esplicito ad Aspromonte.
Emma Mana
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