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Assolutamente d'accordo con chi mi precede, testo consigliatissimo perchè assai istruttivo e ben scritto, non è una biografia, è un saggio sul malaffare di questo paese, un giovane giudice coraggioso freddato ferocemente, uno stato assente, un mondo politico corrotto che mal sopporta il senso di giustizia del singolo magistrato - perchè turbativo dei loro affari ed equilibri- e perciò lo umilia, lo scarica, ne riduce l'operato ad una pedante attività di disturbo degli equilibri politici esistenti. E con questo atteggiamento, scelto per ignavia o malafede, si espone il servitore dello stato ad un totale isolamento che lo rende preda dei suoi carnefici. e poi tutti in chiesa a piangere il martire.
Consiglio a tutti di leggere questo libro, perchè è scritto benissimo. Ammiro tantissimo persone come Livatino, Falcone e Borsellino che hanno lottato tutta la vita per liberare la Sicilia dalla morsa della mafia ed sono stati anche pronti a morire per questo. Sono morti martiri e con un eroismo ed una serenità davvero fuori comune. E' vergognoso invece vedere quanto lo Stato italiano sia corrotto e che molti dei nostri politici (primo tra tutti il nostro presidente del consiglio) siano assetati di potere e di denaro, quasi al pari dei mafiosi. Questo libro insegna tante cose, di cui purtroppo i mass media scelgono volontariamente di non parlare.
Consiglio di leggere questo libro.L'autore, in 158 pagine, traccia un quadro dei rapporti tra mafia, politica ed imprenditoria negli anni Ottanta, quando, cioè, si incomincia a prendere coscienza del fenomeno mafioso, fino ad allora volutamente taciuto, e le Procure siciliane iniziano ad imbastire i primi grandi processi. La figura del Giudice Livatino è quella di uomo onesto, educato, leale, coraggiosissimo e professionalmente insuperabile. Lo Stato, per contro, ne esce sminuito, colpevole, indecente. Il libro è ben scritto e comunica bene l'atmosfera di sospetto politico che si respirava intorno alla Magistratura, soprattutto siciliana, impegnata nella lotta alla mafia. Alla fine di questo libro si prova un senso di grande vergogna e rabbia, soprattutto perché si è consapevoli che lo Stato non tutela ed, anzi, rema contro i suoi uomini migliori (da Chinnici fino a Falcone, da Fava fino a Borsellino, da Cassarà fino a Livatino).
Recensioni
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recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1992, n. 7
Il titolo del libro nasce da una sprezzante polemica dell'ex presidente Francesco Cossiga, riportata in chiusura: "Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga". Un giudice ragazzino - Rosario Livatino, ucciso a trentasei anni, il 21 settembre 1990 nella campagna di Agrigento - è il protagonista della storia, narrata con grande passione civile da Nando Dalla Chiesa. Il quale non può spiegarci la causa diretta dell'assassinio, che forse resterà sempre sepolta negli archivi della mafia, come le uccisioni di altri magistrati, di poliziotti, di politici, del generale Dalla Chiesa, padre di Nando, e di Giovanni Falcone. Però il libro spiega perché le azioni giudiziarie, nonostante i successi parziali, non riescono a sconfiggere la mafia: perché una parte dello stato che dovrebbe essere solidale con i magistrati indipendenti e coraggiosi come Livatino e Falcone opera in senso contrario, provoca ritardi e intralci. La tesi di Dalla Chiesa è la stessa enunciata spesso da Falcone: gli uomini che combattono veramente la mafia vengono lasciati soli dalle istituzioni e perciò possono essere colpiti. "Livatino vive in una terra di nessuno".
Si tratta, dunque, di un libro di parte, un libro di denuncia, con una intensa e drammatica carica politica. Dalla Chiesa non si sottrae certo alla responsabilità di ricordare dei casi e di citare dei nomi. Ecco il ministro Calogero Mannino, invitato a un pranzo a cui partecipa anche il capomafia Peppe Settacasi e testimone alle nozze del figlio di un altro boss mafioso. Non si tratta, naturalmente, di fatti illeciti, ma ce n'è quanto basta - scrive Dalla Chiesa - "per dedicarsi a qualche volatile riflessione sull'etica dello Stato". Ecco il ministro guardasigilli Vassalli e il presidente di Cassazione Carnevale "mortificare ciò che di nuovo, di libero o di coraggioso si muove nella magistratura. L'uno, stizzito, invita pubblicamente i giudici a non far collaborare con la giustizia gli uomini dei clan con la motivazione - psicologicamente devastante - che lo Stato non è in grado di garantire loro protezione. L'altro annulla processi difficili e complessi per vizi di forma esterni alla conduzione delle indagini e del dibattimento in aula".
La storia di Livatino, da quando nella primavera del 1979 giunge alla procura di Agrigento alle indagini sugli interessi economici della mafia, dall'azione contro le "famiglie" in guerra a Palma di Montechiaro alla scoperta e alla denuncia del cosiddetto intreccio tra mafia e affari, studiando adeguati sistemi di indagine, è ricostruita all'interno del "regime della corruzione", che con il sistema mafioso condivide l'ambiguità e la doppiezza dei comportamenti, la convinzione strumentale che "sia tutto giusto e lecito, moralmente, politicamente, ciò che non è perseguibile penalmente". In questo senso, il libro di Dalla Chiesa s'integra in parte con quello di Arlacchi. La lotta contro la mafia non significa, per il giudice ragazzino, smascherare un "terzo livello" politico-istituzionale, ma rimuovere gli ostacoli politici-istituzionali all'azione giudiziaria. Non siamo in un film, non c'è un grande burattinaio che vive ai vertici dello stato e tira i fili di "Cosa nostra"; ci sono invece miriadi di complicità che intralciano l'azione giudiziaria. Quella del giudice ragazzino è la testimonianza di una battaglia coraggiosa contro la mafia ma anche in difesa dell'indipendenza dei magistrati.
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