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recensione di Carboni, G., L'Indice 1997, n. 5
Il grande romanzo americano? In un centinaio di pagine? Pubblicato a Parigi nel 1923 da una minuscola casa editrice? Solo trecento copie per un pubblico che apprezza la sperimentazione letteraria? Forse. Certamente un grande romanzo americano, degno di misurarsi non solo con libri come "Il grande Gatsby" di Fitzgerald, "Il sole sorgerà ancora" di Hemingway e "Urlo e furore" di Faulkner o "Manhattan Transfer" di Dos Passos, che tornano immediatamente alla memoria quando si pensa alla narrativa americana degli anni venti, ma anche con opere meno note, ma forse più importanti, come "C'era una volta gli Americani" di Gertrude Stein o "Canne" di Jean Toomer, con il quale Il grande romanzo americano condivide non solo la data di pubblicazione ma anche il fatto di aver raggiunto i lettori italiani con un ritardo di più di mezzo secolo e solo grazie all'affettuoso lavoro di ricerca di Alide Cagidemetrio per la collana dei "Classici Americani" che dirige presso Marsilio.
A questa esperienza narrativa Williams dedica solo poche righe nella propria autobiografia parlandone come di "una satira della forma romanzesca", "in cui una piccola Ford si innamora, o quasi, di un camion della Mack", ma non bisogna farsi ingannare: questo "grande romanzo" è un figlio legittimo - anche se pienamente maturo e indipendente - dell'"Ulisse" che Joyce aveva dato alle stampe in forma di volume un anno prima. Dietro un titolo che certo è anche ironico, l'intento di fare i conti con il problema della "narrazione romanzesca" e della possibilità di una sua incarnazione "nazionale" americana è non solo serissimo ma letteralmente vitale. Del resto, come ricorda la curatrice nella prefazione, era stato proprio un americano (espatriato) come Henry James a porre nei suoi termini più chiari il problema dell'"arte del romanzo", e il desiderio di leggere il "grande romanzo" che definisca l'esperienza nazionale è ricorrente nella letteratura americana fin dalla sua prima definizione ottocentesca. Gli anni venti, dopo l'impatto con l'Europa - prima attraverso la massiccia immigrazione di fine secolo, poi nelle trincee della guerra mondiale - e con la sperimentazione modernista ripropongono questa domanda di identità in modo drammatico.
La storia degli esiti di questa ricerca - sullo sfondo di una generale e crescente "globalizzazione" della cultura, delle arti e dei loro mercati che vedrà emergere New York come una capitale mondiale assumendo per questo secolo il ruolo che era stato di Parigi per il secolo scorso - è ancora in parte da scrivere, e questo "grande romanzo" ci aiuta a ripensarla a partire dalle sue origini. Le posizioni di Williams sono note, la sua polemica con gli "espatriati" si farà sempre più esplicita e forte - soprattutto con Eliot che presto assumerà il ruolo del garante di questa cultura internazionale angloamericana - e qui si esprime già con un paradosso lucidissimo ("Se ci deve essere un nuovo mondo l'Europa non deve invaderci") e insieme cieco, visto che sono gli Stati Uniti che si preparano a invadere il mondo, economicamente e con i prodotti della loro cultura di massa.
Il problema che Williams si pone è dunque allo stesso tempo di tecnica letteraria e ideologico: il nuovo mondo non può che avere una nuova cultura, e quindi una nuova arte; che sia l'America il paese destinato a produrla è dato per scontato. Non stupirà quindi il lettore che i due primi termini chiave di questa narrazione siano "progresso" e "nuovo", una coppia di termini quasi ridondanti che sostituiscono nel loro rincorrersi, ripetersi e articolarsi la linearità logico-temporale su cui prima il romanzo tradizionale e poi la narrativa popolare del Novecento (in parole e in immagini) si fondano e da cui la cultura di massa si viene parzialmente liberando solo nelle sue, relativamente recenti, incarnazioni postmoderne.
"Se c'è progresso c'è romanzo" - esordisce Williams -, progresso come sviluppo "in avanti" degli eventi, ma anche nel suo più ampio senso tecnologico e sociale, che nella cultura americana si associa inevitabilmente alla penetrazione nel territorio del nuovo mondo per la creazione di un mondo nuovo, con tutte le contraddizioni che questo comporta e che qui si intrecciano con forza e umana partecipazione nella rete dei riferimenti sgonfiandone efficacemente il valore ideologico e propagandistico. Negli stessi anni Williams abbozza e comincia a pubblicare quella "storia critica" del proprio paese che è "Nelle vene dell'America". E nel "Grande romanzo" ritroviamo molti dei personaggi che la nutrono, Colombo, De Soto, Eric il Rosso, ma in una tessitura strettissima con le presenze del quotidiano - gli indiani, gli emigranti, l'anonima madre di montagna o il padre che impreca stupito alla nascita del figlio, tutti quegli esseri umani a cui ci ha abituati la sua poesia e che "Nelle vene dell'America" restano in ombra.
È possibile che il grande romanzo americano non faccia i conti con la storia? È pensabile che non la rilegga anche dentro alle vite di tanti protagonisti piccoli e ignorati? Potrebbe non misurarsi con la terra e il paesaggio, con i ritmi delle stagioni e la loro percezione - la pioggia e la siccità, la nebbia -, con quello che sinteticamente Williams chiama "background": fondale, sfondo della rappresentazione ma anche fondamento e origine, un termine che è insieme spaziale e temporale, storia e immagine?
Il romanzo, a differenza della lirica, è progresso di eventi, ma è anche, inevitabilmente, progresso di parole: "si deve incominciare con le parole se si deve scrivere" e "progredire è progredire dalla pura forma alla sostanza". "Progredire di parola in parola è succhiare un capezzolo", "in altre parole: latte", "la risposta è nel latte".
Il grande romanzo americano del Novecento è anche, per Williams, metaromanzo e metaletteratura, riflessione sui fondamenti stessi della scrittura, sulla parola e sulle parole che compongono l'inglese d'America ma senza cadute nell'estetismo o nel gusto per l'astrazione; parole del corpo, parole che dal corpo ritornano ai corpi. Più avanti Williams troverà per questo la formula felice del verso "not ideas but in things" per domandare che le idee si misurino sempre nelle cose, per fare del linguaggio il terreno di questo misurarsi. Ma qui sembra già essere andato oltre su una strada che gli sarà sempre propria, quella che dalle idee, dalle parole e dalle cose riporta alla materialità essenziale delle persone, al corpo.
E così emerge un'altra serie di termini, immagini, parole, idee, sentimenti che strutturano questo romanzo cubista, avo dell'ipertestualità, come lo definisce felicemente la curatrice del volume. Amore, fedeltà, tradimento, donare, rubare e in fondo, sempre, nutrire. Lo scrittore dona la sua attenzione al mondo e lo ruba, per farne scrittura. Se ci affascina un volto tradiamo il volto che amiamo? A chi si deve fedeltà e come si manifesta questa fedeltà, al paesaggio, ai figli, agli amanti, ai propri sogni, e ancora di quale fedeltà ha bisogno la letteratura per arrivare alla bellezza, perché il "background" ci nutra, perché possiamo nutrirlo, perché mostri la sua unica e individuale bellezza di amati dettagli, giustapposti, che diventano struttura: "Per me la bellezza è purezza. Per me è scoperta, una corsa nei campi".
Come ha notato il curatore dell'edizione americana del 1970 che ha rimesso in circolazione questo "romanzo", la prima lettura richiede, a tratti, pazienza e devozione, talvolta anche il sostegno delle preziose ed esaurienti note e della puntuale prefazione di Rosella Mamoli Zorzi, ma a rileggerlo è una delizia, anzi è una delizia anche la prima volta se si legge con la leggerezza e l'ironia con cui è stato scritto, scivolando sul testo, ma con rispetto e amore: delle cose e delle parole.
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