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In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento - Luisa Mangoni - copertina
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In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento - Luisa Mangoni - copertina
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Descrizione


Don Giuseppe De Luca fu l’uomo dalla personalità complessa: collaboratore negli anni ’30, spesso sotto pseudonimo, di quasi tutti gli organi della stampa cattolica, fu anche tra i collaboratori della ‘Nuova Antologia’; fu ispiratore di collane editoriali; fondatore delle Edizioni di Storia e Letteratura; e propugnatore di una storia della pietà e di una riorganizzazione degli archivi ecclesiastici come testimonianze vive di un passato ancora operante.Nella sua cultura si riassunsero e si espressero in modo esemplare la memoria storica, le antiche tradizioni e le nuove esigenze che tutte insieme muovevano la Chiesa nei suoi rapporti con la società italiana negli anni successivi al Concordato. Ne furono conseguenti la sua presenza non ufficiale e non sempre pacifica nella curia romana; il suo giudizio, storico o contingente, sulle organizzazioni cattoliche, sulle strutture di governo della Chiesa, sul papato e sui papi; così come il suo intenso rapporto con Giovanni XXIII; e ancora la sua posizione nei confronti della cultura laica, e i rapporti che egli intrattenne con alcuni dei suoi più rappresentativi esponenti; e non ultimo il suo atteggiamento verso la politica durante il fascismo e nel successivo dopoguerra, coerente nei presupposti ecclesiali, flessibile nei modi e nelle implicazioni secolari.La sua biografia è la storia di un protagonista sotterraneo ma cruciale del Novecento italiano.

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Dettagli

1989
1 gennaio 1997
XIII-420 p.
9788806115418

Voce della critica


recensione di Dionisotti, C., L'Indice 1989, n. 9

Bisogna cominciare dal sottotitolo, perché il titolo, ben trovato, fa pensare a cose che preoccupano oggi e che erano impensabili nella prima metà del secolo e oltre. Chi sono oggi e dove stanno di casa gl'infedeli? Abbiamo un papa che ha rischiato la pelle in piazza San Pietro, complice, prima e dopo il fatto, l'infedeltà locale, e che però va e viene allegramente per l'universo mondo fra uomini d'ogni colore. E via dicendo. Giuseppe De Luca, nato in Lucania nel 1898, morto a Roma nel 1962, sacerdote, scrittore, editore, amico e confidente di alcuni protagonisti della storia ecclesiastica, politica, letteraria e artistica dell'età sua, non ha ottenuto quel pubblico riconoscimento che in vita aveva sempre desiderato e, per ammenda, evitato. Amava definirsi prete romano, già in questa definizione mescolando umiltà e fierezza. Clandestinamente era diventato monsignore, e quando morì correva voce di una sua imminente nomina all'alta carica di prefetto della Biblioteca Vaticana. Certo è che, fuori d'ogni regola, lo stesso papa Giovanni uscì di Vaticano per portare a lui, morente in ospedale, un ultimo conforto. Dopo la morte, non mancò il tributo degli amici. E grazie in ispecie alla sorella Maddalena, continuò a vivere di nobile vita la casa editrice da lui fondata. E apparvero a stampa raccolte di scritti suoi e di lettere. Con tutto ciò il prete romano che aveva gustato e temuto il veleno dell'ambizione, è rimasto, se non fuori, certo ai margini del quadro storico dell'età sua. Noto ad esempio la sua assenza nella terza appendice (1949-1960) e nella quarta (1961-1978) dell'"Enciclopedia italiana", dove figurano a mazzi 'docti indoctique', morti e vivi. Può darsi che sia in questo caso una vendetta dello stile romano. Perché De Luca, che era stato collaboratore dell'"Enciclopedia italiana", detestava la cultura idealstoricistica che aveva prodotto quell'opera, e aveva coniato l'iniqua ma spiritosa definizione di un Melzi in 35 volumi.
Prossimamente si vedrà se e quale articolo gli sarà dedicato nel "Dizionario biografico degli italiani".
Questo libro su di lui, apparso in una sede che non odora d'incenso, propone un discorso storico. È un libro denso, di una studiosa felicemente estranea a quell'età, e però decisa a sapere e capire quanto più può, capace anche di riconoscere quel che della storia di allora preme tuttora. C'è, a mio parere, una qualche ridondanza. De Luca era scrittore estroso ma scrupoloso. Se leggesse questo libro, credo che gli andrebbe intorno con le force. Ma credo che la sostanza gli piacerebbe. Forse anche il fatto di essere stato inquisito con rigore e gentilezza da una donna italiana. Nel libro le carte sono scoperte. Nel proprio senso, perché è messo a profitto il carteggio abbondantissimo di De Luca: non soltanto le lettere di maggiori, minori e minimi corrispondenti; anche minute di lettere sue, a volte lettere non spedite e però gelosamente conservate. Anche in senso figurato il libro è a carte scoperte. L'interprete non ha ceduto al gusto, che la documentazione solleticava, dell'aneddotica. Neppure al gusto del ritratto, della biografia di un uomo stupendamente vivace.
Il libro non vuole essere una biografia. Presuppone la formazione giovanile, il debito colla terra d'origine, coi maestri, la vocazione religiosa, l'approdo a Roma. Punto di partenza è la Conciliazione, è il momento in cui De Luca trentenne, disposto a "camminare da solo", che è il titolo del primo capitolo, profitta di quella svolta decisiva nei rapporti della Chiesa romana con lo stato italiano. Nessun dubbio che sia stata una svolta decisiva. Ancora, dopo sessant'anni, dopo un totale sfascio e rifascio, vediamo gli eletti della repubblica appesi, come il dodici dei tarocchi, al cappio dell'ora di religione. Il taglio del libro è dunque storicamente giustificabile. E il metodo anche dell'inchiesta, che accetta ma non subisce la successione cronologica, pone via via con rispettosa fermezza questioni, che variamente pesarono sulla vita tutta di De Luca, questioni importanti per lui e per l'età sua. Poiché l'età è stata, con poco divario, anche mia, vorrei subito fare una riserva. Il punto di partenza della Conciliazione non vale allo stesso modo per chi aveva allora vent'anni e per chi, come De Luca, ne aveva trenta. La corresponsabilità storica è ovviamente diversa: già nell'antefatto, guerra, dopoguerra rivoluzione fascista. L'estraneità dei chierico agli eventi non escludeva il risentimento del giovane che, differenziandosi dalla maggioranza dei coetanei suoi, non poteva esimersi da un confronto. È probabile che l'orrore della strage, poi violenza civile, non importasse per lui che l'una e l'altra fossero inutili. La follia degli uomini era vendetta di Dio.
Credo che prima della Conciliazione, fra i venti e i trent'anni, De Luca maturasse quella seconda vocazione, letteraria e in certo senso politica, che tutt'ora s'impone alla riflessione dei laici. Non che si possa mai prescindere, discorrendo di lui, dalla vocazione prima, dell'uomo di chiesa. Ne tiene conto questo libro, da cui risultano bene illustrati i rapporti con la stampa periodica e con l'editoria cattolica. Ma mi pare che il libro stesso confermi la difficoltà per noi di illustrare i rapporti coi superiori, con cardinali e papi. Poco male: ciascuno fa storia nei limiti della sua esperienza e competenza. In Italia, fra Otto e Novecento, la storia della Chiesa si è sempre opposta a quella dello Stato. Tanto più notevole la eccezionale disposizione di De Luca a corrispondere coi laici da pari a pari. Era anzitutto la parità linguistica e letteraria di un uomo, che aveva letto e appreso gli stessi libri, antichi, moderni e contemporanei, e qualcuno in più, e che aveva arte di scrittore. Mai però un cedimento al diverso mondo dei laici. Mai un travestimento. Nessuna complicità mai: indulgenza per gli altri, non per sé. Intransigenza assoluta, non soltanto in materia di fede, ma anche di tradizione e di costume. Superfluo notare l'incompatibilità con certo neomodernismo venuto di moda nella Chiesa e dintorni dopo la sua morte. Notevole invece il rifiuto originario di quel modernismo, che era stato proprio dell'avanguardia clericale italiana ai primi del secolo. L'etichetta stessa, allettante per altri, anche dopo la condanna, repugnava a De Luca: moderni potevano e dovevano essere, volenti o nolenti, gli uomini, gli effimeri, non la Chiesa. Fin col diffidare delle etichette in genere, prodotte da una cultura impaziente e presuntuosa, e di quel suffisso in ispecie, che dall'illuminismo in poi aveva scandito le tappe della moderna deviazione dalla verità cristiana. In un paese come l'Italia, arretrato e servile, con quel risvolto della servilità che è la scaltrezza, e con la fiducia nel primato e nella buona fortuna, che è risvolto dell'arretratezza, la posizione di De Luca rischiava di immedesimarsi con quella dei più rigidi e sterili conservatori dell'Ottocento. Ma, come ho già detto, la sua cultura era illimitata e aggiornatissima. Era lettore avido di Voltaire come di Bossuet, di Claudel come di Gide. C'erano per lui autori detestabili, in gran numero; non c'erano autori vitandi. E gli autori francesi in genere, i contemporanei in ispecie, erano primi per lui, come erano per l'avanguardia letteraria italiana degli anni venti e trenta. L'accordo con questa era nella preferenza per una letteratura europea, guidata dalla Francia e in cui l'Italia avesse parte con le altre nazioni e lingue periferiche. La preferenza importava una sottintesa, ma per De Luca scoperta opposizione al primato di una filosofia inconciliabile con la dottrina della Chiesa e stranamente migrata dalla Germania protestante all'Italia. L'esempio della Francia, e della stessa Inghilterra, dove una letteratura di ispirazione cattolica si era affermata, confortava De Luca a promuovere e appoggiare un analogo sviluppo in Italia. Importava rinnovare da un lato la cultura ecclesiastica, ottenere d'altro lato che scrittori laici liberamente riconoscessero il magistero della Chiesa. Ci poteva essere collaborazione, non confusione di compiti. Il divario fra chierici e laici era per il prete romano sacramentale, insuperabile.
Si arriva così alla Conciliazione. Questa segn• la fine dell'Italia risorgimentale e consentì alla Chiesa di affrontare direttamente la nuova Italia fascista con le forze sue proprie, dell'autorità e della tradizione. Non poteva sfuggire a De Luca l'inferiorità delle corrispondenti forze messe in campo dall'Italia fascista. Né che queste erano in gran parte le forze stesse, avvilite e travestite, dell'Italia risorgimentale. Era cresciuto d'altra parte il rischio di una confusione di compiti, di un coinvolgimento della Chiesa nella politica italiana. Per la sua diversa vocazione e abilità De Luca era disposto a collaborare, non a contendere coi laici; a profittare degli spazi aperti dalla Conciliazione per piantarvi la bandiera della Chiesa, non per assicurare la sopravvivenza clandestina del defunto partito popolare. Di qui il disaccordo, bene illustrato in questo libro, dal futuro Paolo VI.
Fino a che punto e fino a quando sia durata la collaborazione di De Luca col regime fascista, non è chiaro. Certo fu collaborazione di uno che guardava a quel regime, come a ogni altro, con distacco e dall'alto in basso. La sua fedeltà alla Chiesa era totale; nulla aveva da chiedere allo stato italiano. Di qui il seguito della storia. Suppongo che anche per lui fosso decisiva la sottomissione dell'impero fascista al 'Reich' nazista e la conseguente guerra. Non gli saranno mancate ansie e sofferenze, ma era spettatore. Durante e dopo la guerra poté mantenere, rinnovare e istituire rapporti stretti con vinti e vincitori d'ogni parte. Anche qui, ad esempio per i rapporti con De Gasperi e con Togliatti, si legge ultimamente questo libro su di lui. Persino gli spettrali cattocomunisti entrarono nel suo gioco. Forse perché in quel momento parevano vivi e validi nel campo opposto gli spettri dell'Italia risorgimentale e anticoncordataria: liberali, repubblicani, azionisti. Ci voleva suprema lucidità di testa e di fede per uscire indenni dal mercato nero del dopoguerra. La Chiesa stessa era impegnata nel mercato: un papa diplomatico, sopravvissuto impotente e scornato alla guerra calda, si dava ora un gran da fare nella guerra fredda. Resta significativo che De Luca si avvicinasse a Don Sturzo proprio quando il vecchio esule, tornato in patria, si ritrovava isolato e sospetto a Roma. Testa e fede non sarebbero bastate: De Luca uscì bene dalla tragedia della guerra e dal mercato del dopoguerra, perché di contro a quegli eventi che lo soverchiavano seppe rinnovare la sua vocazione letteraria. Sempre aveva guardato fuori d'Italia. Ora le frontiere erano diventate irrilevanti: gli stranieri erano in casa, e la casa era tutta da rifare sotto i loro occhi. Era improbabile che l'Italia idealstoricista e l'Italia delle riviste, "Frontespizio" incluso, tornassero in vita. Se anche valido tuttora, il proposito originario, incoraggiato dalla Conciliazione, di attenuare il divario, nella cultura italiana, fra chierici e laici, poteva essere rinviato a miglior tempo. Le questioni urgenti non si ponevano in termini soltanto italiani. E la Chiesa, che non era da rifare, era cattolica.
Fidando nella Chiesa ma indipendentemente da essa, senza rappresentarla n‚ comprometterla, De Luca tentò la duplice impresa di una storia della pietà e di una editoria storico-filologica senza precedenti n‚ riscontri in Italia. Con quale animo tentasse, risulta da una delle tante lettere felicemente riscoperte e citate in questo libro su di lui (p. 295): "gli anni tra il 1940 e il 1950 sono stati per me gli anni (non ridere) dei miei... vent'anni". Chi lo ha conosciuto allora, non può dimenticare quell'impeto vitale. Per quanto è della pietà, umana, di ogni tempo e luogo, non soltanto cristiana e cattolica, basti ricordare la spietata storia di quegli anni, e in essa, particolare minimo ma non trascurabile, lo sconcio abuso della parola pietismo fatto dai razzisti italiani, che per ciò solo meritarono la spietata vendetta del '45. Quanto all'editoria, si trattava anche qui di opporre uno sforzo costruttivo e riparatore alla distruzione della guerra e alla confusione, recriminazione e discordia del dopoguerra. Rinunciando alla polemica spicciola, che un tempo era stata sua, del giornalismo e della letteratura militante italiana; De Luca ritrovò nella sua originaria educazione ecclesiastica e filologica, Seminario Romano e università di Roma, gli strumenti e i ricordi e contatti utili per aprire uno spazio in cui studiosi di origine, fede, generazione diversa esponessero, ciascuno nella propria lingua, i risultati delle loro ricerche. Apparvero così, stampate a Roma, per pochi lettori sparsi in tutto il mondo, centinaia di pagine in lingua inglese e tedesca. Fra gli autori italiani, così il vecchio maestro della storia antica Gaetano de Sanctis, cattolico di stretta osservanza, come il suo allievo ebreo Arnaldo Momigliano. Mancò a De Luca la pacata e lenta maturità richiesta dalla sua seconda giovinezza, il tempo e il modo di adeguare l'arditezza delle due imprese alle forze e risorse disponibili, sue e altrui. Ma quelle imprese, tutt'e due, storia della pietà, e storia generale fondata su erudizione e filologia, non soltanto appartengono e fanno onore alla cultura italiana del dopoguerra: anche fanno paragone colla cultura odierna. Bisogna pensarci su.


recensione di Miccoli, G., L'Indice 1989, n. 9

Questo libro di Luisa Mangoni dovrebbe poter godere di molti lettori. Certo dovrà passare tra le mani di non pochi 'specialisti'. Storici della cultura e della letteratura italiana, come della politica o della Chiesa e della vita religiosa, potranno leggerlo e studiarlo con grande profitto.
Don Giuseppe De Luca fu per molti aspetti un personaggio di eccezione: lettore onnivoro e poligrafo instancabile, organizzatore di cultura di smisurate ambizioni, consigliere segreto e corrispondente attivissimo di letterati, artisti e studiosi di ogni orientamento, letterato, studioso di storia ed erudito di inconsueto spessore egli stesso. In rapporti non secondari con figure di rilievo della politica e dell'economia e intimamente legato ad alcuni dei protagonisti della Roma ecclesiastica tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '60, restò però per quasi tutta la vita pressoché privo di particolari distinzioni e riconoscimenti; la sua attività e la sua opera sono, nel panorama religioso e culturale italiano di quei decenni, un singolare 'unicum': che tuttavia - ed è uno dei risultati di questo libro di mostrarlo e documentarlo con chiarezza - si rivela insieme straordinariamente espressivo, pur battendo vie proprie, dei problemi, degli orientamenti e delle aspirazioni della Chiesa e del cattolicesimo italiani.
Amplissima la documentazione messa a frutto: quella edita, costituita in primo luogo dagli innumerevoli articoli e saggi sparsi a piene mani da De Luca nel corso di quarant'anni su riviste, giornali e bollettini i più vari e diversi, e quella inedita, rappresentata soprattutto dalle migliaia di lettere da lui intrecciate con i suoi corrispondenti, e di cui Luisa Mangoni ha potuto usufruire per la saggia liberalità di Maddalena De Luca. Ma la documentazione, pur essendone l'indispensabile ingrediente, non fa ancora un libro di storia, e meno che mai un buon libro di storia. Nell'uso che ha saputo farne, incrociando con misura e discrezione gli scritti privati ed i testi pubblici, attenta soltanto a ciò che effettivamente serviva ad offrire elementi di chiarimento reale sta uno dei grandi meriti della Mangoni ed un aspetto rilevante della lezione storiografica di questo libro.
Netta e persuasiva la delimitazione di campo. La ricerca non è, n‚ vuole essere, una biografia nel senso comune della parola, anche se è intessuta, com'è ovvio, di molti dati biografici. Il nodo con cui intende misurarsi è la cultura di De Luca, la rete di relazioni che la produssero e che insieme di volta in volta ne derivarono. Ma definire il libro della Mangoni un saggio di storia della cultura sarebbe definizione ancora inadeguata, quasi ritagliasse ed esaminasse un aspetto, importante ma pur sempre particolare, della personalità e dell'opera di De Luca. Tema e approccio di esso sono suggeriti, vorrei dire imposti, dalla personalità stessa che ne è l'oggetto dalle sue aspirazioni, dalle sue scelte e dalla sua attività, dai modi in cui intese se stesso e il suo essere prete al servizio della Chiesa di Roma: prete romano.
La ricerca prende le mosse dalla fine degli anni venti. Le nuove prospettive aperte ai cattolici italiani dalla stipula del concordato, le opportunità insperate che vennero in tal modo delineandosi - o che comunque furono da lui percepite come tali - rappresentano, per la Mangoni, quell'insieme di circostanze che diedero modo a De Luca di far emergere e di chiarire a se stesso alcuni tratti salienti della sua personalità e di precisare e definire le caratteristiche di fondo di quello che progressivamente diverrà un grande progetto di presenza culturale.
A sentire così De Luca non fu certamente il solo. Nella loro grandissima maggioranza la gerarchia e il mondo cattolico videro nel concordato una strepitosa rivincita di quei "disordinamenti liberali" che avevano preteso di colpire la funzione e l'influenza della Chiesa nella società. Ma fu specificamente suo il modo con cui egli ritenne che quella occasione andava messa a frutto.
Dagli anni del seminario - con un esito davvero inconsueto in un clima ancora greve di sospetti e memorie della non lontana stagione modernista - De Luca si era portato il gusto per le letture di ogni tipo, con una frequentazione tutta sua della cultura controrivoluzionaria cattolica dell'Ottocento - De Maistre, Veuillot, Donoso Cortés - cui lo avevano probabilmente ricondotto gli amati Giuliotti e Papini, con i quali era entrato anche in diretto contatto fin dall'inizio degli anni '20. Del tutto ovvio e naturale fu così il suo impegnarsi in un'intensa collaborazione giornalistica a fogli, foglietti e riviste cattoliche, e attraverso il tramite di monsignor Tardini, che era stato suo prefetto e poi professore di seminario, all'attività editoriale della Gioventù di azione cattolica. Ma dal seminario, e dal rapporto con monsignor Paschini che gli era stato insegnante, egli aveva derivato anche l'aspirazione e l'amore per la ricerca erudita; e dalla partecipazione all'edizione nazionale del Petrarca latino, sotto la guida di Vittorio Rossi, di cui aveva frequentato i corsi di letteratura italiana all'Università di Roma tra il '20 e il'22, aveva ricavato il gusto per la filologia e la ricerca linguistica. E a tutto ciò si accompagnavano i primi contatti, non ovvii n‚ limitati a un circuito confessionale, con personaggi di spicco della cultura italiana - Papini, Prezzolini, Croce -, contatti tenacemente perseguiti. De Luca non vi negava una punta di vanità: ma tale ricerca, come le sue letture, era soprattutto espressione di un bisogno di guardare più largo e più ampio, di attrezzarsi e di aprirsi a lezioni di lingua, di stile, di metodo, a esperienze e riflessioni che non gli erano offerte dagli ambienti ecclesiastici romani. Il primo De Luca - ma almeno in parte sarà così anche in seguito - condivide i giudizi e gli schemi interpretativi che il cattolicesimo intransigente dell'Ottocento aveva elaborato sulla cultura e la civiltà moderne. È insofferente e ostile agli epigoni dell'idealismo (al sostanziale rispetto per Croce e in parte per Gentile fa da costante contrappunto in lui l'acre disprezzo per i più dei loro discepoli e continuatori), in cui vede l'ennesimo tentativo di "dare una fisionomia atea all'Italia", ripetendo concetti e formule che altrove avevano fatto il loro tempo. Avverte però anche tutta la pochezza e l'angustia culturale del mondo cattolico italiano degli anni venti, la sua incapacità di far fronte e contrapporsi efficacemente alle posizioni altrui: ciò rischiava di non permettere alla Chiesa di cogliere e realizzare tutte le possibilità che il concordato le offriva, di consumarle in uno sterile attivismo, che fu per De Luca la tentazione ricorrente del mondo cattolico di quei decenni.
Giudizio sulla cultura cattolica e valutazione e apprezzamento delle prospettive aperte dal regime fascista costituiscono due aspetti centrali per capire la sua posizione. In riferimento a quel giudizio e a quella valutazione maturò la sua stessa proposta di un ritorno all'erudizione che, dopo alcuni tentativi compiuti con la Morcelliana, già sullo scorcio della guerra e compiutamente nel dopoguerra trovò espressioni nelle "Edizioni di Storia e Letteratura", aperte a tutte le grandi voci della ricerca filologica e storica internazionale, e nell'"Archivio italiano per la storia della pietà", che di tale ritorno doveva rappresentare il momento più significativo.
Il giudizio sulla cultura dei cattolici non poteva non portare De Luca a misurarsi con la questione 'modernista'. Il suo rifiuto irridente e insultante del modernismo non deve trarre in inganno. Esso denuncia la presenza come di un grumo, di un groppo non risolto; suggerisce con i suoi stessi eccessi, l'idea di un'originaria condivisione di esigenze e problemi che andava in qualche modo riscattata e cancellata con la perentorietà della negazione e dell'insulto. Risponde alla durezza della condanna e della repressione ecclesiastica ma non può eludere n‚ quelle esigenze n‚ quei problemi. Certo, negli anni venti e trenta, quando De Luca giunge alla maturità, quella cultura e quella scienza laica che i modernisti ammiravano è già in piena crisi, e questo è il dato nuovo, di un campo che non figura più minacciosamente munito, che resta aperto, e sul quale appare finalmente possibile che s'instauri la Chiesa. Ma in De Luca c'è anche il rovello di un rischio da correre, che è lo stesso dei modernisti, e c'è il problema - non legato soltanto alla sua collocazione ecclesiastica e alla sua fede, ma anche intellettuale, di ricerca e di impostazione culturale - di come evitarne le insidie. Dire che i modernisti pretendevano di "modernizzare" la Chiesa banalizza, in termini che vorrebbero essere caricaturali, le questioni con cui furono costretti a misurarsi: che furono, variamente articolate ed espresse a seconda dei diversi protagonisti, di ristabilire tra la Chiesa e la cultura moderna - il suo pensiero, il suo linguaggio, la sua ricerca - un circuito, un rapporto, che apparivano essersi interrotti da tempo.
De Luca non sentiva diversamente n‚ partiva da un problema diverso. Ma diversa, inevitabilmente diversa, fu la soluzione che egli cercò di realizzare. Non cadere negli 'errori' dei modernisti e garantirsi le spalle dai sospetti delle autorità costituì per lui il passaggio obbligato per recuperare tutta intera la possibilità per il clero di quell'impegno di studio e di ricerca che gli appariva più che mai urgente e necessario, imposto dalle condizioni della società e dalla crisi della stessa cultura laica, che l'avvento del fascismo aveva ulteriormente evidenziato. Le pagine che la Mangoni dedica agli sviluppi di tale riflessione sono tra le più ricche e corpose di un libro che ne è ricchissimo. L'impossibilità di riassumerle costringe a ridurle ad uno schema unidimensionale. L'errore dei modernisti era stato quello di volersi misurare direttamente con le ideologie, le filosofie, i metodi e i criteri di una cultura per tanta parte anticristiana: di volerli assimilare e comporre con la propria fede, di cui però, già col pensare possibile una tale operazione, mostravano di aver perso il senso di unica e irripetibile specificità. Attenti ai mutamenti della storia - delle culture, dei linguaggi, delle sensibilità - avevano dimenticato i caratteri immutabili della verità di cui avrebbero dovuto essere i portatori. Preoccupati dell'incontro fra due realtà ormai distanti e incomunicabili come la Chiesa e il mondo moderno, avevano elaborato una cultura del mutamento, omologandosi però così alle realtà del secondo e venendo meno a quel ruolo di annuncio e di mediazione che era proprio del sacerdote. Avevano perduto il senso della Chiesa come esperienza e capacità di esperienza totale, non 'parte' ma 'tutto', un 'tutto' cui solo colpe, deviazioni, sordità e tradimenti impedivano di pienamente realizzarsi ed affermarsi nella storia. Ma in tale errore i modernisti non erano soli: ripetevano, con altri intendimenti e con segno opposto, un atteggiamento ed un percorso che erano stati il grave limite del cattolicesimo dell'Ottocento e che costituivano ancora la tentazione costante del cattolicesimo contemporaneo. È in De Luca una riflessione complessa, che si costruisce su alcune irreversibili negazioni, formulate in direzioni molteplici e per aggregazioni successive, ma che restano l'una complementare all'altra. L'Ottocento ne diviene progressivamente il luogo privilegiato: non solo come il periodo in cui gli avversari avevano compiutamente attrezzato le loro armi storiografiche contro il cattolicesimo, ma anche "come duplice fonte di errore, contro e dentro la Chiesa". Gli intransigenti infatti avevano 'sentito' giusto, nella difesa dell'ortodossia, ma non avevano 'visto' altrettanto bene. L'organizzazione del movimento cattolico che ne era scaturita, e alla cui tradizione continuavano ad attingere i contemporanei movimenti laicali di azione cattolica, esprimeva in realtà "non il rapporto del cristiano con Dio, ma essenzialmente quello con la società", dimenticando in qualche modo così che "intanto il cristianesimo affiora nel campo sociale [...] in quanto e per quanto è religione".
Quando, in alcune lettere a Papini del settembre e dell'ottobre 1931, De Luca dichiarava la sua convinzione che "il primo Ottocento italiano - compreso il Manzoni, purtroppo! - è assai più rivoluzione francese (e sociale) che cristianesimo (domma e vita interiore)", e della religione del Manzoni diceva che essa "non è la rivelazione di Dio ma la nostra postulazione di Dio nella società", egli formulava in realtà una critica radicale e liquidatrice di gran parte dell'apologetica cattolica dell'Ottocento, che dai problemi e dalle difficoltà della vita sociale aveva preteso di ricavare i fondamenti delle sue argomentazioni e i criteri per le sue certezze. Sta qui la radice del suo distacco dall'Azione Cattolica - un distacco che prima e più che una contrapposizione al suo "attivismo" attesta ed esprime, come acutamente rileva la Mangoni, un dissenso culturale - come della sua critica al pontificato di Pio XI e poi di Pio XII, colpevoli, ai suoi occhi, di privilegiare i movimenti laicali, deprimendo o trascurando le strutture permanenti e tradizionali dell'organizzazione ecclesiastica come la curia e le parrocchie. Ma tutto ciò comportava per lui anche un modo diverso di porsi verso la cultura laica e atea dell'Ottocento, mutando "radicalmente le domande: non più relative a cosa e perché fosse cambiato, ma a cosa in questo mutamento si fosse perduto". La sua attenzione si rivolge perciò agli autori - Leopardi, Nietzsche, Tolstoi - e alla cultura atea che avevano "sentito la modernità come diminuzione e sofferenza". Era una scelta, osserva la Mangoni, che non rispondeva solo alle sue personali preferenze ma che riporta anch'essa ai problemi e alle difficoltà suscitati dall'esperienza dei modernisti: perché in tal modo De Luca poteva "ristabilire un contatto", che però, "per l'oggetto stesso a cui si rivolgeva, appariva meno pericoloso e nello stesso tempo ricco di implicazioni e suggestioni nel riproporre una concezione della Chiesa, a nulla estranea, ma intangibile nei suoi fondamenti".
È un insieme straordinariamente articolato e vario di pensieri, spunti, osservazioni, che la Mangoni insegue e ricostruisce nella loro intrinseca coerenza attraverso gli innumerevoli articoli sparsi da De Luca nelle sedi più disparate, e le confessioni e le idee distribuite a piene mani ai suoi numerosissimi corrispondenti. In ultima istanza si trattava, per lui, di superare ed evitare i limiti, le parzialità, i pericoli e le deviazioni che erano state di volta in volta i tributi pagati dal cattolicesimo dell'Ottocento (ma che ancora operavano negativamente nel presente) all'attacco che gli era stato mosso dal razionalismo e dal laicismo, e di individuare insieme la strada che doveva ridare alla Chiesa - e per essa al clero - quella capacità di egemonia culturale che era venuta meno. La riscoperta dell'erudizione e la proposta in essa della storia della pietà come nuova e diversa storiografia nascono da qui, vogliono essere la risposta in positivo a tali problemi e a tali aspirazioni.
Ma tale riscoperta e l'urgenza di tale riscoperta nascevano anche, per De Luca, dalle nuova condizioni che il fascismo aveva determinato in Italia. Sgombrando il terreno dagli antagonisti storici della Chiesa senza peraltro sostituirsi ad essi con una cultura ed un'ideologia altrettanto compatte, esso aveva creato un vuoto che attendeva soltanto di essere riempito. Risolvendo la 'questione romana' e stipulando un concordato, aveva liberato i cattolici dalla necessità dell'arroccamento difensivo e della concorrenzialità nella lotta politica e sociale; non solo, ma proprio in virtù del regime cui aveva dato vita e dell'accordo raggiunto con la Chiesa, li aveva liberati anche dai problemi di schieramento e di orientamento politico che tanto avevano pesato sulla loro azione.
Ciò presupponeva, da parte dei cattolici, l'abbandono di tutti gli steccati e le forme organizzative che li ponevano come corpo separato della società, ma insieme, anche da questo punto di vista, la riacquisizione di quella capacità di lavoro culturale che risultava perduta da tempo. La contrapposizione alla linea di Pio XI e all'Azione Cattolica era netta, e comportava per il mondo cattolico non solo la sostanziale accettazione delle prospettive politiche del fascismo, ma anche un inserimento reale e una condivisione profonda che andavano ben al di là dell'accordo fino allora raggiunto: "mescolare in un'acqua sola le acque della nostra tradizione e delle nostre anime" come scrisse De Luca a Bottai in una lettera del febbraio 1941.
Se in assai scarsa compagnia era De Luca nel suo impegno culturale egli però non pensava certo in solitudine. La domanda sui consensi che queste sue posizioni riscuotevano negli ambienti cattolici resta aperta. La rigorosa analisi della Mangoni apre dunque questioni che andranno approfondite su di un piano più generale: e le apre in una prospettiva nuova capace di evitare il ricorso a formulette pigre e rassicuranti così consuete nello studio dei rapporti tra Chiesa e fascismo (clerico-fascismo, afascismo, e varianti relative).
L'ostilità di De Luca per una condizione che spingesse i cattolici ad essere un 'partito' nella società, inducendoli, essi stessi, a sentirsi tali, si ripropose nel dopoguerra con la democrazia cristiana e la linea assunta dal pontificato di Pio XII. Si intrecciavano in questo suo atteggiamento i malumori presenti negli ambienti di curia per il partito unico dei cattolici, troppo compromettente e condizionante l'opera e gli interventi della gerarchia, con spunti e osservazioni che rinviano alla sua frequentazione di Rodano e di Felice Balbo e alle loro analisi sulla 'civiltà della crisi', e con un recupero tutto suo dell'esperienza di Sturzo, come espressione di un raggiunto equilibrio tra confessione religiosa e professione politica, e quindi di "una cultura politica il cui dato più significativo era esattamente quello che a suo tempo [gli] era sembrato intollerabile, la sua autonomia". In tale contesto il suo progetto trovò per lui una nuova urgenza di realizzazione, non modificò però caratteri e prospettive. Erudizione e storia della pietà: due percorsi che dovevano permettere di recuperare intera la tradizione storica della Chiesa e della vita cristiana, e di acquisire quel punto di vista superiore in grado di 'comprendere' e padroneggiare il nascere di posizioni antagonistiche senza cadere nella polemica e nella contrapposizione immediata, e senza il rischio perciò di farsi catturare dalle loro parzialità e limitatezze. Erudizione come scavo, raccolta, presentazione e sistemazione di materiali, documenti, voci e testimonianze della storia, che le varie storiografie, preoccupate della costruzione di grandi visioni storiche da usare come armi nelle loro battaglie, non erano state n‚ erano capaci di accogliere e considerare nei loro schemi; erudizione, perciò, come immenso recupero di memoria storica, come risposta ed antidoto a un depauperamento progressivo di atti, gesti, pensieri, situazioni ed esperienze, la cui passata e operante realtà era gradualmente caduta dalla coscienza degli uomini.
In questo quadro la storia della pietà si qualifica come momento privilegiato e tema del cuore. Nella sua visione essa abbraccia e comprende tutto l'arco della storia dell'uomo al di là delle culture, delle epoche e delle periodizzazioni: storia della pietà come storia del rapporto dell'uomo e degli uomini con Dio, in tutte le sue gradazioni e manifestazioni" storia quindi anche del rifiuto e della negazione di quel rapporto, del suo proporsi come ateismo ed empietà.
Scelta apertissima dunque, questa di De Luca, proiettata in tutte le direzioni e su tutti i campi della storia, disposta a tutti gli incontri e a tutte le collocazioni con chi fosse mosso da volontà reale di conoscenza e di studio, di scavo libero e spregiudicato di terreni ignoti o malnati, nella fermissima persuasione però che solo chi partisse dal saldo ancoraggio della Chiesa era in grado di compiere e di realizzare pienamente una tale scelta. Mi pare significativo il fatto, profondamente espressivo del suo modo di intendere la funzione della Chiesa e del prete nella società, che De Luca viva la sua esperienza di sacerdote e di uomo con la stessa ampiezza e spregiudicatezza di rapporti umani e di interventi con cui progetta la sua impresa culturale, muovendosi senza preclusioni su entrambi i piani. Può intrattenere rapporti di amicizia e di colleganza con Bottai come con Rodano, con Papini e Bargellini come con Baldini, Prezzolini e Croce, può incontrare Togliatti come Sturzo e De Gasperi. Vi è una sottile e profonda analogia tra la realtà di questi incontri, nel suo restare profondamente se stesso pur aderendo e in qualche modo modellandosi allo stile, al tono, ai bisogni del suo interlocutore, e il suo pensare le caratteristiche e il modo di essere della Chiesa nella storia. Con le edizioni egli realizza un circuito di rapporti di analoga ampiezza. Furono il suo cruccio e la sua fierezza degli ultimi vent'anni. Sono, pur incompiute, il suo incomparabile monumento.
"Testi antichi per una Chiesa nuova", così la Mangoni intitola l'ultimo capitolo del suo libro: ed è un bel titolo, che esprime sinteticamente l'atteggiamento di De Luca negli anni del pontificato di Giovanni XXIII, il senso che egli dava al suo lavoro ed alla sua ricerca, anche se il loro accento sembra battere sempre più insistentemente sull'antico piuttosto che sul nuovo. Giustamente, credo, Luisa Mangoni rileva che il De Luca del dopoguerra resta nella sua parte più viva il De Luca degli anni trenta. Come l'introduzione all'Archivio può essere "ricostruita passo per passo, citazione per citazione" sui suoi articoli di allora, così il suo progetto e la sua "battaglia per una cultura dei cattolici in Italia" hanno in quegli anni le loro radici e le loro motivazioni profonde, solo accelerati, resi più urgenti e non più procrastinabili dallo scoppio della guerra, e dalla crescente atmosfera di crisi, di 'fine di un mondo' che inevitabilmente l'accompagn• e la seguì.
Il suo impegno per la "resurrezione degli studi eruditi" non costituiva per lui un modo di appartarsi, di ripiegare "in un campo neutrale in attesa che i tempi dessero indicazioni": esso intendeva predisporre piuttosto "quella che ai suoi occhi appariva come la trincea estrema da opporre alla crisi, ma anche la base futura di un contrattacco che avesse avuto retrovie solide, rifornimenti certi e continuativi". La mancanza di ricadute immediate non escludeva, tutt'altro, le ricadute, perché la sua ambizione era appunto di operare nell'ambito della ricerca, là dove nascono originariamente "le opinioni che poi a piene mani si spargono nelle scuole alte e basse e quindi tra il popolo".
Era un progetto pensato in grande, e con dimensioni di vasto respiro, come i suoi prodotti ampiamente attestano. Ma, storicamente, esso va valutato e misurato anche sulle intenzioni e le prospettive che lo muovevano. Il problema dell'effettiva rispondenza tra mezzi e fini entra a pieno titolo nel giudizio storico su di esso. La Mangoni in effetti non lo elude: non a caso per due volte torna nelle sue pagine, con riferimento ad esso, la parola "illusione". Né essa si nasconde che il problema dell'effettiva possibilità che la ricerca ancora agisse ed operasse "alle fonti di un'opinione" costituiva "un problema che De Luca neanche si poneva, che tutta la sua formazione impediva che [...] si ponesse". Per lui il punto di riferimento costante restava "quello degli ultimi due secoli e dell'apostasia del pensiero moderno". Ed in sostanza gli sfugge il fatto che l'avvento di una società di massa ha reso assai labili, se non interrotto del tutto, quei raccordi e quelle conseguenti ricadute sui quali egli puntava per la sua riuscita.
È un limite di percezione storica che va ben oltre la persona di De Luca perché sconta con tutta evidenza una duplice origine: l'eredità della cultura intransigente e oltramontana dell'Ottocento, dominata da esclusivi criteri intellettualistici nell'analizzare e nel giudicare le vicende del proprio tempo, si incrocia con il suo essere profondamente e autenticamente un intellettuale - e un grande intellettuale - formatosi in un periodo in cui ben ferma restava la persuasione che il pensiero e la ricerca non potevano mancare di produrre fatti, n‚ di segnare un'orma duratura sull'andamento delle cose del mondo. È il limite dunque di un'intera cultura, che trova accomunate, in questo, tradizioni 'cattoliche' e tradizioni 'laiche'. La stessa grandezza di De Luca ne esplicita e ne enfatizza gli aspetti, come in uno specchio deformante. In lui possiamo misurare tutto ciò che nel frattempo si è perduto di motivazioni e di certezze, ma anche quanti fili, sia pur sottili e sotterranei, legano, spesso inconsciamente, la nostra cultura a quegli atteggiamenti e a quelle illusioni.

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