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Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2017
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"Senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire", aveva affermato Cavour il 25 marzo 1861 in uno dei suoi discorsi parlamentari più lucidi e appassionati, richiamando le "circostanze storiche, intellettuali, morali" che destinavano l'urbe a candidarsi a capitale di "un grande Stato", e quindi "sul diritto e sul dovere di insistere" perché essa venisse "riunita all'Italia": anche se, aveva aggiunto, era opportuno cercare di conseguire quel risultato senza offendere la Francia e senza toccare "l'indipendenza vera del pontefice", vale a dire quella che atteneva "all'ordine spirituale". Due giorni dopo, la Camera dei deputati approvava a larga maggioranza un ordine del giorno che, ispirato a quelle convinzioni e a quegli obiettivi, è stato a lungo considerato dalla tradizione democratica il primo vero atto di discontinuità rispetto al Regno di Sardegna, di cui il decreto del 17 marzo 1861 si era limitato a mutare il nome in Regno d'Italia, seguendo un'ottica di semplice ampliamento territoriale.
Snodo cruciale di teorizzazioni e progettualità volte a superare il deprecato (e plurisecolare) "particolarismo", la "questione di Roma" non poteva non imprimere il suo sigillo sulla nascita e poi sulla costruzione di uno stato che era sì frutto dell'iniziativa regia, ma che era anche figlio della rivoluzione e di una serie di eventi rivoluzionari: non per nulla, nel decennio che seguì tanto la politica interna quanto quella estera ruotarono intorno a quell'asse, che nessuna Convenzione di settembre poteva cancellare dall'agenda italiana, anche se molti preferivano pensare a tempi lunghi, a transizioni lente e condivise, e magari a meditate rinunce. E, tuttavia, quando i bersaglieri entrarono in Roma, risultò chiaro che nessuno era attrezzato ad affrontare una novità di quella portata, temuta o desiderata che fosse.
La capacità di restituire al meglio l'atmosfera di incertezza che si respirò a Roma e nel circondario laziale nel corso delle prime e convulse settimane dopo il 20 settembre 1870 è senza dubbio uno dei meriti principali dell'accurata ricostruzione che delle vicende politico-istituzionali di quell'area nei due mesi successivi alla fatale breccia di Porta Pia operò, fra il 1957 e il 1963, un ancor giovane archivista e storico, Claudio Pavone, in due articoli lunghi e documentatissimi, che vengono ora riproposti con una breve e puntuale presentazione dell'autore, divenuto nel frattempo uno degli storici più amati e stimati in Italia.
Molti sono gli spunti di riflessione offerti da queste pagine anche al lettore semplicemente colto e curioso: dal contributo che l'avvenuta annessione di Roma finì per dare al "superamento dei partiti" e al trasformismo, ma anche a un'ulteriore stretta accentratrice, fino alla sottolineatura del peso che le tradizioni locali ebbero nel modellare un corpus di impiegati e funzionari ampiamente rinnovato, ma nient'affatto "piemontesizzato", e tendente anzi ad assumere comportamenti vissuti e percepiti come "meridionali"; dai richiami all'assenza di sconvolgimenti politici e sociali tali da sollecitare la discesa in campo di forze a difesa dell'ordine antico o del nuovo, alla cura posta nel confrontare gli effetti delle nuove procedure di selezione del personale politico in Roma, nei desolati paesi e nei rari centri urbani della sua campagna, dove coloro che erano in grado di governare erano drammaticamente pochi e dunque insostituibili, e dove l'appartenenza territoriale pesava molto più di quella politica, del resto decisamente aleatoria.
Due osservazioni, per concludere, su questioni che, sia pure con tutte le diversità del caso, hanno un sapore di marcata attualità. La prima riguarda il netto rifiuto, per quel che riguarda tutti gli esponenti romani, di assecondare la tendenza del governo italiano, "timoroso della sua stessa audacia", a tessere transazioni con il Vaticano, e dunque a proporre per Roma "regimi speciali" che potevano pregiudicare il suo futuro in quanto capitale del Regno: un rifiuto che si colloca agli antipodi delle attuali convergenze politiche in favore di uno statuto particolare per la capitale, anche se il decreto-stralcio del 17 settembre 2010 ha tutta l'aria di volersi concretizzare in poco più di un segnale di resistenza istituzionale alla volontà leghista di "disfare", con il ruolo di Roma, il volto dell'Italia unita.
La seconda osservazione riguarda il sovrano disprezzo degli emissari dei governanti non solo nei confronti delle popolazioni della provincia, "simulatrici, use al servilismo e all'ipocrisia", incapaci di guardare al di là dei loro interessi "familiari e personali", ma verso gli stessi romani, accusati a più riprese di "apatia politica", di spiccata tendenza al dolce-far-niente, e perfino di scarsa religiosità e "poco rispettosa familiarità" verso persone e "cose di Chiesa": quasi un'avvisaglia del rapporto ambiguo degli italiani con la loro capitale, destinato a crescere a dismisura con il dilagare in Roma di quei fenomeni di speculazione e di corruzione, di clientelismo e parassitismo che di fatto notificavano un più complessivo fallimento delle istanze di riforma morale e civile di cui si era nutrito il Risorgimento.
Simonetta Soldani
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