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L'io e suoi sé. Identità personale e scienza della mente - Michele Di Francesco - copertina
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L'io e suoi sé. Identità personale e scienza della mente - Michele Di Francesco - copertina

Descrizione


L'autore si propone l'esame di alcune delle principali questioni filosofiche poste dalla nozione di "persona", con particolare attenzione al recente dibattito sviluppatosi su questo tema nel contesto della filosofia analitica e delle scienze cognitive. Che cosa costituisce l'identità di un individuo attraverso il tempo? Che cosa determina l'unità del soggetto? L'articolazione del volume segue esigenze di tipo didattico e presenta i temi trattati per progressivi approfondimenti. Il pubblico potenziale comprende i filosofi, gli psicologi interessati al tema dell'identità, gli scienziati cognitivi in genere.
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Dettagli

1998
1 marzo 1998
XIV-332 p.
9788870784930

Voce della critica


recensione di Legrenzi, P., L'Indice 1998, n. 8

Questo avvincente saggio di Michele di Francesco prende le mosse da una distinzione che al senso comune può sembrare ovvia: quella tra cose e persone.
Consideriamo una persona che io conosco: Vittorio Girotto. Non ho alcuna difficoltà a dire che si tratta della stessa persona che permane anche al variare del tempo e degli spazi in cui si muove. Ma quali criteri uso per dire che si tratta sempre di Vittorio Girotto, in posti diversi e in epoche diverse, e non di un'altra persona? Posso usare un criterio "corporeo": è lo stesso perché ha un certo aspetto e si muove in un dato modo. Posso usare un criterio mentale: è una persona che ha quella memoria (eccezionale) e quell'intelligenza (brillante), e che condivide con me certi ricordi e conoscenze. Criteri corporei e criteri mentali sembrano andare di pari passo. Ma se un individuo perde una gamba, se gli vengono trapiantati organi, magari cruciali, se "perde la testa", abbiamo sempre a che fare con la stessa persona oppure no?
Il primo a porsi in maniera sistematica tali quesiti è stato Locke, con il "Saggio sull'intelletto umano" del 1690. La sua soluzione del problema privilegia non la continuità del corpo ma quella dei contenuti mentali. È una scelta ricca di conseguenze. Ad esempio, se il criterio è la capacità di elaborare (il pensiero) e trattenere informazione (la memoria), allora chi ha disturbi nella continuità della coscienza è una persona che funziona male. Senza ripercorrere tutte le vicende filosofiche della questione, ricostruite in modo documentato da Di Francesco, basti qui ricordare le conseguenze sul dibattito mente-corpo. Ad esempio, nel clima culturale positivistico della Francia della Terza Repubblica, verrà avviato un programma di ricerca sulla malattia mentale intesa come incapacità di costruire e mantenere un modello coerente del sé. Un caso limite è la sindrome da personalità multiple, e cioè la convinzione patologica che più persone possano condividere lo stesso corpo. La diagnosi di dissociazione della personalità è oggi prevista dal Dsm, il manuale più diffuso e riconosciuto tra gli psichiatri americani.
In questo secolo tutto un filone di romanzi e film, e non solo di fantascienza, sviluppa in modi sempre più sofisticati l'idea di replicante, e quella di metamorfosi. Consideriamo l'incipit di Kafka: "Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregorio Samsa si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto". A differenza del romanzo fantastico dei secoli precedenti, qui si parte da un evento soprannaturale, di cui si sviluppano le conseguenze nel mondo della vita quotidiana. Quanti e quali cambiamenti siamo costretti a introdurre nel mondo da noi conosciuto quando facciamo esperimenti mentali di questo tipo?
Un ulteriore passaggio verrà compiuto a seguito dell'adozione sempre più diffusa delle tecnologie, soprattutto informatiche. Se una persona è definibile sulla base dei suoi contenuti mentali, che cosa ne facciamo di quanto non è riconducibile al funzionamento del cervello di quel singolo individuo? Già mentre scrivo, come adesso, sul mio computer e sfrutto la "sua" memoria, in realtà interagisco con un pezzo della "mia "memoria depositata fuori di me. Ma il computer non incorpora solo parte della mia intelligenza e delle mie conoscenze. È fatto anche dell'intelligenza di chi lo ha progettato e di quella di mio figlio, che ha personalizzato il suo software in modo da renderne facile l'uso a una mente "poco informatica" come la mia. Ecco come mai oggi è diventato di moda parlare di "menti distribuite". Persino le aziende vengono concepite come sistemi di conoscenze alloggiate in più menti che interagiscono.
Il criterio lockiano ci ha portato molto lontani dal buon senso originario. Oggi sappiamo che sulla base della definizione corporea di una persona possiamo capire ben poco del senso delle sue azioni. Ad esempio, se vogliamo etichettare un comportamento corporeo altrui come molestia sessuale ci è inutile un elenco, anche dettagliatissimo, degli atti graditi e di quelli offensivi. Per decodificare il comportamento dobbiamo conoscere le intenzioni altrui, e cioè il modello della mente dell'altro. Le persone strambe, se non malate, spesso lo sono proprio perché non riescono a costruirsi modelli adeguati delle menti di chi le circonda. Sono persone più inclini di quelle "sane" a cadere nelle trappole cognitive e motivazionali che, in forma blanda, caratterizzano la vita sociale di tutti.
Il tema dell'identità personale è insomma al cuore di molte tematiche della psicologia cognitiva applicata, dal mondo delle organizzazioni complesse a quello della malattia mentale. Ma è anche all'origine delle questioni di bioetica. Tralasciamo il meno interessante, ma sempre scottante, problema di quando diventiamo una persona (dibattito sull'aborto). Pensiamo invece alla parentela tra uomo e scimpanzé: se la stimiamo dal punto di vista dei geni, e quindi delle proteine, è dell'ordine del 98-99 per cento. Se usiamo questo criterio la persona-uomo è molto più imparentata con la persona-scimpanzé di quanto non sembri sulla base del criterio mentalista. È in questo 2 per cento di differenza (piccola) che si gioca la differenza (grande) di capacità cognitive.
Mi accorgo che probabilmente non sono riuscito a dare al lettore un'idea esaustiva della ricchezza di questa vicenda filosofico-psicologica, che inizia con Locke e si frammenta oggi in miriadi di questioni, dalla bioetica alla salute mentale. Mi limiterò a raccomandare caldamente questo saggio non solo a filosofi e psicologi, teorici e clinici, ma soprattutto a chi, tra costoro, è tentato dai riduzionismi fisicalisti, che oggi sembrano tornare di moda.

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