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L'isola di Sukkvan
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Descrizione


Un'isola selvaggia nel Sud dell'Alaska, isolata dal mondo e immersa in una natura incontaminata: Jim si immerge in questo scenario per passare un anno con il figlio tredicenne - Roy - in una capanna isolata dal mondo civile, e recuperare un rapporto trascurato da una vita di eccessi e delusioni (in particolare la crisi del suo matrimonio), vivendo di caccia e pesca. Il rigore della vita in condizioni estreme e l'insicurezza del padre trasformano, però, il soggiorno in un incubo che peggiora giorno dopo giorno e che il piccolo Roy non riesce a sostenere. Fino al violento e imprevedibile epilogo, in cui il padre si trova di fronte all'assurdità di questa sua iniziativa.
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Dettagli

2011
2 marzo 2011
194 p., Brossura
9788845266546

Valutazioni e recensioni

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Scarlett
Recensioni: 4/5

La grandiosità della natura selvaggia fa da contraltare agli abissi interiori del protagonista che non riesce a sfuggire a se stesso e a tutti gli errori commessi.

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Paola Sini
Recensioni: 4/5

Questo libro mi ha sconvolta e tanto commossa. Difficile non pensarci, anche dopo diverso tempo, per qualche giorno si è ancora proiettati lì, su quell'isola dove si è compiuta la più atroce delle tragedie, un'isola che si prospettava come un nuovo inizio, una speranza, un luogo da scoprire, da cui ripartire, un'avventura di cui raccontare. Ma la natura non può essere conforto per la disperazione e il forte senso di frustrazione che ci si porta dentro. La natura selvaggia di una terra come l 'Alaska, ostile per via del suo clima, insita di pericoli e imprevedibilità, una terra che richiede  impegno e sacrificio quotidiani e che non può rappresentare un sollievo e riempire un vuoto incolmabile. Al contrario, una natura che diventa un riflesso delle mancanze dell'uomo, dei propri fallimenti.    Vann con grande sensibilità evidenzia la fragilità dei sentimenti umani, "il desiderio e il rimpianto che riempiono Jim come un qualcosa di fisico", tutta l'inettitudine dell'essere umano nella quale a sua volta noi stessi ci rispecchiamo, quasi un gioco di riflessi. Qui l'essere umano in questione è un genitore, un uomo incapace, un fallito che ci riprova ma che rimane un debole, lo è talmente da sembrare una nullità, fino in fondo, incapace  di gestire sè stesso, figuriamoci una famiglia, dei figli, dei semplici rapporti umani. Ma al compimento della tragedia ciò che resta è il rimpianto e una pena profonda, infinita, tutta l'impotenza di fronte a una vita che si dà per scontata nel momento in cui la si vive, quasi incapaci di percepirla davvero o non si riesce a trovare la forza di viverla appieno, per debolezza o per incapacità, perchè non sempre tutti hanno il coraggio di affrontarla e viverla appieno, assumendosi le conseguenze,  semplicemente: è un macigno sul cuore. Ve lo consiglio, nonostante questo. È il primo romanzo di Vann, un best seller internazionale, tradotto in 14 lingue, ha ottenuto molti premi. Buona lettura.

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Ilaria
Recensioni: 3/5

Jim è un uomo con molti fallimenti alle spalle tra cui due matrimoni. Convince suo figlio Roy di appena tredici anni a passare un anno su un'isola selvaggia e inabitata dell'Alaska. Lì, immagina Jim, saranno uniti nella lotta alla sopravvivenza e potranno godere appieno della natura; ma Roy accetta solo per non dare un dispiacere al padre. Ben presto si renderà conto che le vere difficoltà non verranno dalla natura incontaminata ma bensì dalla psiche del suo genitore. Ho amato l'ambientazione e le descrizioni di quest' Alaska disabitata. Forte, crudo, spietato non adatto a chi è sensibile al tema del suicidio. Acquista valore per la sua scrittura semplice e per il lato autobiografico dell'autore. Esso infatti sembra rielaborare il lutto del padre suicida e i suoi sensi di colpa. Per questo lato introspettivo celato tra le righe di una storia parzialmente inventata aggiungo una stellina e mi lascio coinvolgere nel suo dolore.

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Recensioni

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Voce della critica

"Che ci sarà mai in Alaska?" si domandano i protagonisti dell'omonimo racconto di Raymond Carver. Probabilmente un nuovo inizio, quanto meno la sua prospettiva. Carver non ci conduce nelle vastità del nord, ma la scelta di quel luogo rimane comunque emblematica. A lungo l'Alaska ha rappresentato l'ultima frontiera degli Stati Uniti, per molti una frontiera permanente, uno spazio – ci rammenta il monumentale studio sulla wilderness americana di Roderick Nash – in cui gli americani potevano prendere visione del proprio passato e riscattarsi in quanto "ultima chance per fare le cose per bene al primo tentativo".
È questo lo spirito che investe il protagonista di L'isola di Sukkwann, fulminante romanzo d'esordio dell'americano David Vann, che approda anche in Italia nella convincente traduzione di Sergio Claudio Perroni. E di vero approdo si tratta: l'autore impiega dieci anni per scriverlo, dodici per pubblicarlo, fino al prestigioso Prix Médicis che nel 2010 riconosce in Vann l'erede più prossimo di Cormac McCarthy.
Originariamente inserito nella raccolta Legend of a Suicide (Harper, 2008)e ora nella veste di romanzo breve, L'isola di Sukkwann è, a detta dello stesso autore, "una novella à la Chaucer", una di cinque storie che offrono versioni distinte e complementari di uno stesso episodio reale intorno al quale ruota l'intera narrazione. I racconti sono infatti saldati, all'interno di una cornice, da una medesima ossessione: David Vann aveva tredici anni al momento del suicidio del padre il quale, solo due settimane prima, lo aveva invitato a trascorrere con lui un anno in Alaska. Il senso di colpa per il rifiuto – molla, forse, di quello scellerato atto paterno – e il timore di ripetere gli stessi errori del genitore lo tormentano per anni, sicché la scrittura, per Vann, più che terapia è esorcismo, infine approdo salvifico. Il potere redentivo dell'immaginazione si coniuga a un conveniente valore liberatorio, tanto da rimuovere il temuto presentimento di condanna, la latente minaccia di una coazione a ripetere che per un ventennio perseguita l'autore. Come Linda Sexton (figlia della poetessa Anne e il cui memoriale Half in Love: Surviving the Legacy of Suicide è appena stato pubblicato negli Stati Uniti), anche Vann si interroga sulla propria vulnerabilità genetica, nell'accanito tentativo di districarsi tra la fascinazione della morte e la presunta ineluttabilità del proprio destino. Già autore di A Mile Down (Thunder's Mouth Press, 2005), un memoriale ancora inedito in Italia che affronta la pesante zavorra di quell'ombra, in questa seconda prova Vann opta per una formula meno confessionale, pur riproponendo gli stessi laceranti vizi emotivi che lo attanagliavano da ragazzino: la paura, la colpa, la vergogna. Ed è lo stesso scrittore a ipotizzare in un'intervista che il suo penchant per un genere letterario così desueto e la scabrosità del tema trattato (la morte come ultimo tabù della nostra società post-postmoderna, per dirla con Jean Baudrillard) possano aver influito sul ritardo di riscontri critici.
Il fittizio Jim (diminutivo di "James Edwin Vann, 1940-1980" alla cui memoria è consacrato il libro, ma la cui dedica è inspiegabilmente omessa in tutte le versioni europee) è reduce dal suo secondo divorzio. Inaffidabile e infedele con le donne della sua vita, negligente e maldestro nel suo ruolo paterno, si illude di poter regolare i conti della sua fallimentare esistenza su un'isola semideserta al largo di un'Alaska incontaminata. Il tredicenne Roy, fragile e taciturno, lo segue suo malgrado, mal disposto ma infine rassegnato a trascorrervi un anno intero lontano dalla madre e dalla sorella. Padre e figlio inaugurano così un'improbabile stagione del loro quasi inesistente rapporto, che prende il via all'insegna della novità ("Erano nuovi di quel posto e di quel modo di vivere e nuovi anche l'uno per l'altro"), protagonisti di un'avventura pionieristica tutta maschile. Tanto che la preoccupazione più impellente consiste nella ricerca di provviste, nella costruzione di nuovi attrezzi, nell'esplorazione di territori aspri e incantevoli, nel desolante tentativo di riempire un tempo "fatto d'aria e capace di addensarsi e fermarsi".
Un insidioso senso di inquietudine serpeggia sin dalle prime righe del romanzo fino a conflagrare in un gesto drammatico (tanto violento quanto inaspettato e inenarrabile, a rischio di annullare una paziente costruzione di nervosa tensione drammatica) che interrompe bruscamente il fluire tormentato di giornate indaffarate. Sicché le rare parole che a stento, finora, hanno fatto trapelare tutta l'angoscia dei due estranei, si tramutano in un urlo furioso e straziante. L'Alaska, pare suggerire Vann, lungi dall'essere rifugio per fuggiaschi speranzosi, si rivela essere uno specchio gigantesco, capace di amplificare e rifrangere il dolore muto e represso di chi vi si rechi impreparato, di chi cioè non sia disposto a trasformare quel dolore in humus fertilizzante per la propria esistenza. Potere della narrativa.
Daniela Fargione

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Conosci l'autore

David Vann

1966, Adak Island (Alaska)

Scrittore, insegna scrittura creativa alla University of San Francisco.L'adolescenza di Vann è segnata dal suicidio del padre.I suoi libri hanno vinto sino ad oggi 14 premi, fra i quali il Prix Médicis étranger 2010 in Francia come miglior romanzo straniero (Sukkwan Island) e il Premi Llibreter 2011 in Spagna. Sono apparsi su più di 65 liste "Miglior libro dell'anno" in dodici Paesi, e sono stati tradotti in 18 lingue. Vann è stato insignito del Guggenheim Fellowship per le arti creative, nella categoria fiction. Suoi lavori sono apparsi su Atlantic Monthly, Esquire, Outside, Men’s Health, Men’s Journal, the Sunday Times, the Observer, the Guardian, the Sunday Telegraph, the Financial Times, Elle UK, Esquire (UK Edition), Esquire Russia, National...

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