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Da circa quattro decenni, dal 1968 appunto, l'arte italiana non riesce a imporsi, a produrre opere e interventi situati o avvincenti, con scenari storici e culturali ben costruiti, un romanzo, una "nostra epopea" (la citazione è da Emilio Villa). Questa la tesi della mostra (Palazzo Grassi, Venezia; Museum of Contemporary Art, Chicago, 2008-2009). Perché, si è spinti a chiedersi? La domanda giunge tempestiva: l'arte italiana è stata caratterizzata in anni recenti (dalla seconda metà degli anni ottanta, se proprio non dal 1968) dalla crescente perdita di connessione fra arte contemporanea e sfera pubblica, dal prevalente orientamento a moda e design. Se l'arte non si interessa al mondo, il mondo finisce per disinteressarsi all'arte: solo pochi artisti italiani sono oggi conosciuti e apprezzati sul piano internazionale, mentre in Italia l'arte contemporanea appare in crisi di appeal, consumata dalle folle ma irrilevante di fatto, assente nel discorso pubblico.
"L'arte italiana afferma Francesco Bonami, curatore, nel saggio in catalogo è stata violentata dal fondamentalismo politico che ne ha soppresso gli istinti internazionali più forti". Che cosa si attende, la platea globale, da un artista italiano, e quali sono "gli istinti internazionali più forti"? Accogliamo l'invito a considerare Italics come un esercizio di "etnografia", cercando di comprendere motivazioni e irritazioni curatoriali, diffidando di posizioni frontali, riflettendo tra le righe di statements, selezioni, montaggi di opere e artisti. Emerge una prospettiva netta e rivendicativa, formulata però solo per accenni, con ermetica prudenza, e sorprendente se considerata in relazione ad alcuni tra gli artisti invitati. "La rimozione forzata, negli anni settanta, di pittura e religione [è] il trauma di una cultura che anziché cercare nella propria specifica intraducibilità l'occasione per diventare universale, ha preferito diventare introversa, finendo per parlare a se stessa". Il ritorno alla pittura di fine anni settanta può al tempo far sperare "in un recupero innovativo... Ma anziché sviluppare l'idea di un luogo, l'Italia, come fabbrica di genialità internazionale, [si] ripiega sulla catastrofica idea del genius loci". La contrapposizione a Bonito Oliva, a tratti caustica, si sviluppa sul comune terreno teorico (e ideologico) del presupposto identitario. È possibile dubitare dell'argomento della "specificità" italiana e ritenere, in modo del tutto antisostanzialistico, che le drammatiche discontinuità istituzionali, culturali, civili, politiche della storia nazionale novecentesca non possono non riflettersi nell'arte?
L'insolita considerazione concessa ad artisti rimasti ai margini dell'opinione consolidata, tenuti per matti o decisamente detestati, da Pietro Annigoni a Fabrizio Clerici, da Carlo Zinelli a Yervant Gianikian e Angela Ricchi Lucchi, è tuttavia nel senso dell'apertura ad attitudini e orientamenti eccentrici o inversi. Se l'opera di Clerici rivela l'ampiezza di diffusione dell'opera di Dalì nell'arte degli anni sessanta e settanta (Dalì, a suo stesso dire, "campione degli oscurantisti", modernista antimoderno), la linea che connette De Dominicis a Cattelan e Cuoghi costituisce la dorsale simbolica dell'esposizione, con l'insistito pensiero della morte l'ossessione funeraria , il tema dell'inattualità, il rimando a una dimensione fanciullesca di "ingenuità", addirittura di "innocenza". Sullo sfondo la polemica con l'ideologia progressista (Giulio Carlo Argan è comparato dispettosamente al funereo Giulio Andreotti del film Il divo; alle retoriche curatoriali di Celant si obietta l'eccessiva attenzione per i "territori ibridi", design, cinema, moda e teatro) e l'idea, parrebbe un po' alla Brandi, di una fedeltà profonda, "antropologica", della cultura figurativa italiana all'immagine, intesa sia in senso ludico che (a tratti soprattutto) cultuale. Colpiscono le analogie tra artista e critico.
Italics appare come una sorta di cristallizzazione curatoriale della Nona ora di Maurizio Cattelan, la scultura in lattice, cera e tessuto raffigurante papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. Presentata nel 1999 alla Royal Academy di Londra in occasione della mostra Apocalypse e battuta due anni dopo da Christie's alla cifra record di 886 mila dollari, la scultura costituisce sotto il profilo commerciale l'inatteso, deflagrante successo di un artista italiano nel contesto del sistema internazionale dell'arte. Dolente e lussuosa al tempo stesso, l'immagine del papa conquista la comunità angloamericana: congiunge ambiguamente liturgia e glamour, enigma della testimonianza o del martirio e narrazioni pubblicitarie. Può apparire come una professione di fede, come l'autoritratto en travesti di un artista impegnato in un difficile negoziato fra culture globali e locali oppure come l'astuta dilapidazione in chiave etnografica, sulla piazza metropolitana, di un'identità culturale e religiosa millenaria. Nell'uno o nell'altro caso accoglie o sollecita narrazioni identitarie.
Michele Dantini
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