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Descrizione


“Jisei si chiama in giapponese l'ultima poesia, quella composta quando il mondo attorno comincia, silenziosamente, ad allontanarsi e si resta soli con se stessi di fronte al passo più difficile. Nessuna cultura, che io sappia, ha coltivato con tanta passione e perseveranza come quella nipponica la tradizione di questo gesto, breve e definitivo, che in pochi versi consegna o ha l'ambizione di consegnare un'intera esistenza - un'anima -a chi verrà. Per secoli, da che la scrittura ce ne ha lasciato testimonianza fino a oggi, o almeno fino a qualche decennio fa, prima che anche le scansioni del vivere e del morire si facessero troppo sbrigative, i giapponesi sul letto di morte si sono fatti passare il pennello o hanno dettato a un familiare, a un discepolo, a un amico il pensiero estremo. Chi avesse la pazienza di scorrere lo sterminato repertorio di questi addii, disseminati nelle prime antologie, negli scritti agiografici sulle vite dei monaci o nei poemi epici, nei resoconti di viaggio, nelle raccolte monografiche o collettive dei poeti, si troverebbe di fronte a una vera e propria storia letteraria e spirituale del Giappone”. (Ornella Civardi)
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Dettagli

SE
2020
27 agosto 2020
128 p., Brossura
9788867235636

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alida airaghi
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Curata da una delle nostre migliori orientaliste, Ornella Civardi, questa antologia raccoglie più di mille anni di poesia giapponese, così come si è espressa nella forma del Jisei, cioè della brevissima composizione scritta poco prima di morire. Si tratta di malinconici commiati dall’esistenza, che nei secoli hanno creato una tradizione letteraria, esprimendo un canone formale scandito in una metrica rigorosa e basato su metafore ripetute. Troviamo infatti in questi versi l’utilizzo reiterato di immagini tratte da elementi atmosferici, dalla vegetazione o dal paesaggio, a indicare l’inevitabile distacco dalla vita, l’illanguidirsi della vitalità fisica, lo svanire dei ricordi: la rugiada, la nebbia, la neve, il succedersi delle stagioni sono i temi più presenti, sullo sfondo di montagne invernali, di placidi laghi o di mari sconfinati; il cielo è terso e luminoso, pronto ad accogliere l’ultimo respiro del poeta accompagnato dal canto degli uccelli (il cuculo, in particolare, messaggero della notte e guida nell’aldilà); la luna, soprattutto se riflessa nell’acqua, illumina il buio con la sua benevola e tiepida luce; gli alberi perdono le foglie e i fiori, indicando il rassegnato trascorrere del tempo e la fugacità della bellezza. L’atmosfera che pervade le composizioni è di tranquilla accettazione del distacco, di rappacificazione col mondo dei viventi, di saggia accettazione dell’annullamento di sé: nessun furore eroico, o vibrata protesta contro il destino, o prometeica esaltazione del proprio passato. L’insegnamento che anche un lettore occidentale (così tenacemente individualista) può trarre da queste composizioni è senz’altro l’ammissione della propria finitudine, la convinzione di far parte di un ciclo armonico di morte e rinascita universale, la consapevolezza del suo non essere indispensabile al mondo, il dovere di riconoscenza per quello che di bello ha potuto godere: «Tersi cieli di ghiaccio, / per la via che ho fatto a venire / me ne ritorno».

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