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Journal - Matilde Manzoni - copertina
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Descrizione


Ultima di nove figli di Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni, Matilde morì tisica nel 1856 a soli ventisei anni. Una vita breve e dolorosa, segnata dalla malattia, ma soprattutto dall’esperienza dell’abbandono. Nel 1851, quando scrisse il Journal, Matilde viveva ormai da anni in Toscana, ospite della sorella Vittoria e del cognato Giovanni Battista Giorgini: la madre, scomparsa nel 1833, non era che un ricordo venerabile e sbiadito; il padre, enigmatico e irraggiungibile, un’effige da contemplare con mai rassegnato e mai soddisfatto desiderio di intimità famigliare. Una vita, si direbbe, destinata a non lasciare tracce.
Eppure il diario che Matilde tenne per pochi mesi, dal 1° gennaio al 26 marzo – e in cui si affollano vite e persone diverse, affetti, letture –, rivela, nella disadorna semplicità della lingua, mista di francese e italiano, una sensibilità acuta e una sorprendente originalità di giudizio. Questo diario è rimasto sino a oggi inedito e sconosciuto: lo proponiamo qui certi che il lettore non potrà sottrarsi al fascino sottile e insinuante che si sprigiona da questa «minuscola, preziosa goccia di vita intima», specchio fedele, fra l’altro, del «piccolo splendore provinciale della società pisana tra nobiltà e borghesia negli anni delle guerre d’indipendenza» (Garboli). E fra le sorprese che il Journal e le carte di Matilde riservano spicca l’incontro – inaspettato e folgorante – tra la figlia di Alessandro Manzoni e i Canti di Leopardi: «Quello che colpisce, nel leopardismo di Matilde, non è la sua quotazione letteraria. È l’unicità, l’irripetibilità del momento, del tempo in cui Matilde legge i Canti: il momento perfetto, magico in cui questa lettura cade. Nessuno ha mai letto i Canti come Matilde, e nessuno potrà più farlo».

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Dettagli

2
1992
27 aprile 1992
196 p., Brossura
9788845909061

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Roberto94
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Un diario d'inverno

Ottima la prefazione del Garboli, più che esaustiva, ma che si fa leggere con interesse. Il "Journal", scritto in francese ed italiano, copre un segmento cronologico di tre mesi: gennaio, febbraio e marzo (solo parzialmente) del 1851; delle pagine in francese, viene proposta traduzione in appendice. Il libro è, inoltre, dotato di un indice dei nomi citati nel testo: utile ausilio per rievocare la società nobiliare e borghese, intellettuale, mondana e patriottica, riunita attorno alle figlie del Manzoni - Matilde era ospite della sorella -, nella Toscana pre-risorgimentale. Curiosità documentaria, ma anche estrosità bibliografica. Consigliato.

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Cristiana
Recensioni: 3/5

Interessante la prefazione, che è più del Journal stesso..... Il Journal, per stessa ammissione di chi lo scrive, è un brevissimo elenco poco partecipato di avvenimenti senza notazioni intime che invece troviamo nelle lettere citate, appunto, nella prefazione. Come dice giustamente Fortini meglio sarebbe stato che ad essere pubblicate fossero state le lettere stesse.... Comunque interessante, specie se non si è letto il libro della Ginzburg.

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Voce della critica


recensione di Fortini, F., L'Indice 1992, n. 8

Cesare Garboli pubblica quarantatré pagine inedite di un diario tenuto per i primi tre mesi del 1850 dalla ultimogenita di Manzoni, Matilde, allora ventenne, morta di tisi sei anni dopo. La prefazione è della qualità che ci si può aspettare dal nostro scrittore; e sua ottima. Sono ottantatré pagine, oltre a una nota al testo. Della parte maggiore del diario, redatta in francese, segue una versione, poi una nota bibliografica e un ricco indice esplicativo di nomi.
Garboli racconta come abbia trovato i manoscritti di Matilde a Montignoso (Massa Carrara) presso il figlio di un ministro di casa dei discendenti del Giorgini che, sposata un'altra figlia di Manzoni, Vittoria, tenne con sé Matilde. Si sapeva del diario: Matilde Schiff, nipote della zia di Matilde, prefacendo le memorie della madre Vittoria ne aveva, con qualche manipolazione, edita una parte; da qui non sappiamo quanta e quale. La si legge nel primo dei tre volumi di "Manzoni intimo" dello Scherillo, 1923. Con gli interventi della Schiff sarei meno severo di Garboli. Accusare, nei familiari degli autori scomparsi, "l'oblio, sentito come un diritto, delle norme più elementari" mi pare confonda fra morale e norme pratiche della filologia. Un epistolario non è un contratto, anche se può essere vero l'inverso.
In confronto al "Journal" trovo però di gran lunga più coinvolgente e doloroso il carteggio fra Matilde e il padre. Garboli lo studia, interpreta e cita con grandissima finezza di romanziere; sebbene arretri (a suo onore) di fronte alla ricerca dei motivi occulti del crudele comportamento di Alessandro. (La poesia non giustifica nulla; ma come dimenticare che il padre di Matilde, primo in lingua italiana, aveva già saputo e detto, trent'anni prima, che "Nel suol che dée la tenera / Tua spoglia ricoprir / Altre infelici dormono / Che il duol consunse..."). Nella nota bibliografica si dice che, ad eccezione di una già nota, le lettere di Matilde riproducono manoscritti del Fondo Braidense. Sono inedite? Sembra. Con quali criteri sono stati trascritti gli originali e scelti i passi citati? Interminabile derby, da un secolo e mezzo dura l'antagonismo fra Manzoni e Leopardi (il Belli emerge, di tanto in tanto: presto attuffato). Oggi Giacomo ha il grido. Ma non scherziamo. È un conflitto di pensiero e di scelte da prendersi sempre, anzi sempre più, sul serio. Qui Garboli vi ha portato un suo contributo con alcune pagine sulla fortuna critica di Leopardi nel primo ventennio successivo alla sua morte (e in una, molto bella, c'è una notazione da esperto, sull'"atteggiamento ministeriale che spesso assumono le culture forti e di gruppo"). Credo proprio che col passare dei tempi l'antagonismo si sottragga alle interpretazioni delle rispettive opere e biografie per rinviare alle due radici, la moderna e la premoderna (o antimoderna) della nostra storia: dove moderna, e dunque 'progressista', è naturalmente (e contro le apparenze) la leopardiana mentre antimoderna (anche qui contro le apparenze) è la manzoniana che a partire da un ormai consolidato liberalismo guarda però a Dante e Agostino.
C'è qui una molto insistita ostilità a Manzoni e ai suoi ammiratori. Primi, va da sé, i "Moderati Toscani" (Vieusseux, Capponi...) colpevoli di non amare Leopardi quanto Matilde e presentati come sciocchi ottimisti che (p. 90) stavano "facendo l'Italia coi bei risultati che poi si son visti", inciso questo, non fosse la facilità dell'enunciato, di timbro assai manzoniano. Tema e discussione che proprio nel circondario toscano prossimo a Garboli tante forti menti coinvolse una ventina di anni fa. Qui tutto quel che tocca a Leopardi è abissale e sublime, tutto quel che tocca a Manzoni è oscuro e meschino. Perfino le dodici pagine conclusive della prefazione, sua vera meta, dedicate alle letture leopardiane di Matilde (di cui resta traccia in non più di sue trenta o quaranta righe del "Journal", oltre ai versi ricopiati, con quelli di tanti altri, in due album) danno adito a un sospetto di sovrainterpretazione, di accaloramento o affabulazione. La cara infelice ispira pietà e simpatia, per i medesimi motivi che a Garboli: vitalità nello strazio. (Sono abbastanza vecchio per avere avuto da ragazzo, in famiglia, per lento morbo una morticina simigliante). Leggo: "Manda una riga alla tua Matilde". Garboli sa che questo, certo, potrebb'essere un verso del Purgatorio, però, a prezzo di una lettura decadente. Perché omogeneizzare documenti e poesia? Cercherò di rispondermi più oltre. Ma quanti fili oscillano fra i Manzoni e i Leopardi via Massarosa, Montignoso, Pisa e Siena! Non c'è solo il giovane Turrini che presta i "Canti" nella edizione del 1845 a Matilde, ignara che il padre, a Milano, fin dal '47 con l'attizzatoio di quella edizione ha verisimilmente smosso le proprie braci, leggendosi la sino allora sconosciuta "Ginestra" per iniziare in gran segreto l'incompiuto "Ognissanti", che alla "Ginestra" sembra una replica. Garboli ricorda il Giusti che frequentava casa Giorgini e dei particolari della morte di Leopardi tutto aveva saputo dal Ranieri, informandone Gioberti. "E Matilde non ne seppe mai niente? E non parlò di Leopardi col padre, la volta che si videro in Toscana? Non gli parlò dei "Canti"?". A Pisa, sul Lung'Arno dove Matilde visse, Giacomo aveva avuto dimora in un periodo memorabile, ventidue anni prima. E: "Vediamo spesso il prof. Rosini", scrive Matilde al padre. E il quasi ottantenne Rosini, anch'egli accademico ("invitto radoteur" avrebbe detto Montale; e Matilde così lo disegna) era stato compagno inseparabile di Leopardi nei suoi giorni pisani, non senza fama di libertinaggio. Figurarsi se non ne avrà discorso.Se le date non ingannano, nel 1850 del "Journal", Matilde è in buona salute, passa i giorni in passeggiate e in balli le sere di carnevale, durante l'estate fa ben trentacinque bagni di mare. I primi guai gravi sono di due anni dopo. Temo che non sia di grande aiuto l'istintiva associazione con Silvia e Nerina, e che forse le pagine leopardiste del diario non debbano essere interpretati alla luce del destino atroce che le seguì ma situate, insieme agli appunti delle letture e le lettere, fra le tante che in quegli anni le ventenni della sua classe sociale e della sua intelligenza venivano scrivendo un po' in tutta Europa.
Leggiamo queste pagine senza sovrainterpretarle. Anche se è inevitabile lo faccia un critico che tende alla semiosi illimitata e unisce all'intento di un massimo di rigore filologico quello di sollecitazione dell'oggetto, sia esso il testo sia la sequenza di "testi entro un testo" che più brevemente si chiamano la 'vita'. La categoria della 'vita' (o della morte, che fa lo stesso) sembra dominante in Garboli, come nel 'suo' Penna; e spiega la sua giovanile scelta, continiana, a favore della 'critica delle varianti'. Matilde è per lui, anche nel peggiore strazio, vitale; Alessandro è teterrimo, ipocrita, retore, un "Polonio", uno 'zombie'. Nell'amore di Matilde per Leopardi non ci sarebbe dunque solo l'inconscia protesta contro il padre mortifero ma anche una identificazione con le forti passioni e le immagini di realtà intensa dei "Canti". Mentre Alessandro retrocederebbe senile al Settecento, anche metastasiano (però già a 27 anni Manzoni, rammento, parodiava, e proprio sul tema della esitazione, il Metastasio). I due secoli convivono in lui arbitro, come in tutte le menti europee che ebbero vent'anni fra Fleurus e Austerlitz, fossero Hegel o Byron. Età non separate anzi strette dalla morsa fra Bastiglia e Termidoro, dunque massimo esempio dell'ambiguità di ogni periodizzazione. Non esclusa quella che, secondo Garboli, partirebbe in due ere di sacrifici rituali (morte della virginale Enrichetta, 1833 e della vergine Matilde nel 1856) la storia della famiglia Manzoni.
La, a Garboli cara inseparabilità di 'vita' e letteratura lo induce a leggere le biografie come romanzi, i romanzi come storia e l'esistenza universale come narratologia in azione o teatro, colpi di scena cambiamenti a vista. Non discuto la legittimità della categoria storiografica di 'famiglia'. Anch'io, ai miei tempi, lessi lo Scherillo. Come una sovrabbondante letteratura anglosassone ci ha insegnato, nulla di più incantato e angoscioso eppure rassicurante delle saghe familiari o dinastiche, microstorie sempre a gola stretta dove il "piccolo dettaglio vero" dà facilmente il brivido di star conversando con Proust. Ha recentemente scritto Garboli (vigorosamente negando tuttavia ogni connessione tra fatti esistenziali e processo creativo): "La vita si comporta o può comportarsi come un testo... ogni vita può essere letta, decifrata, smontata, ricombinata come un testo... può essere interpretata o meglio ancora 'eseguita'... ogni vita è già scritta... in un certo senso, è un testo, ricchissimo di significati, anche il decorso di una malattia, o la morte, o la gravidanza". Ma qui l'uomo del 'Settecento' è Garboli. Parlerei di empietà (Manzoni, sottovoce lo avrebbe fatto).
Qui la mia divergenza dal romito di Vado di Camaiore. Assumo in campo i colori della sublime ipocrisia o impostura manzoniana contro la universalmente celebrata suprema illusione dell'"arido vero", approdo del Recanatese. Chi fra loro due, come fra le due famiglie di loro discendenti e di noi tardi nepoti, è quello che pretende di guardare dal punto di vista di un dio? Empio non è chi nega il divino ma chi ne finge le fattezze. E l'intelligenza di Garboli mi esime - parlando di ipocrisia qui non disconviene la preterizione - dal suggerirgli che quel punto di vista è (in un modo, come un destino, irrespingibile) quello di un ceto o classe. Dominante o comunque certa, come Giobbe ai suoi inizi di un privilegio foss'anche solo quello della biblioteca paterna sulla Piazzetta lunare o di poter cavare dal cassetto del tavolo di lavoro "come tanti burattini" i personaggi di Fermo e Lucia. Già si sa che quando (francese o altra) si prosciuga una rivoluzione, sull'"arida schiena" del mondo non restano che psicologia, fisiologia, letteratura e napalm. Solo ai gradi supremi (come, ancora una volta, in Proust), fioriscono i fiori di oltremondo, ginestre o fior di Cecilia o biancospini. Al di sotto, dove abitiamo noi, di aver detto che una vita è un testo ci si dovrebbe, in uno di quei confessionali che non ci sono più, pentire. Il mondo, ossia la totalità, quello sì, è semmai il libro dove il Senno Eterno "scrisse i propri concetti" e che possiamo decifrare per via riflessa, in allegoria ed enigma. L'"amore della umanità" del Don Giovanni di Molière, che tratta tutti come testi e macchine strutturali, ci fa orrore, come Faust-Heinrich a Margherita. Sante Legioni, proteggeteci.
Più volte, nei miei inverni senesi, sono entrato, a pochi passi dalla facoltà, nel chiostro della antica chiesa dei Servi, dove Matilde è sepolta. Sopra la sua è la lapide della decenne Luigina, la nipote a lei carissima che fu testimone sconvolta della sua prima emottisi. Le due iscrizioni sono attribuite ad Alessandro, che visitò la tomba di Matilde quattro mesi dopo la fine, nell'agosto del 1856. L'epigrafe è singolare, più che per l'omissione del nome della madre, per l'inconsueto appellativo della malattia ("spenta dal lento morbo") che par richiamare sia il "chiuso morbo" di Nerina che il "lento poi sull'umili / Erbe morrà... " della Pentecoste. Ma soprattutto per due arcaismi e gallicismi violenti che - e a Siena poi - potrebbero indurre qualche dubbio sull'identità dell'autore: "lasciava desiderio di sé / per una vita bella di tutte virtù / che sublimano il sesso". Quel "tutte virtù", passi, ma quella doppia metafora... Quando, a decidermi del tutto a favore dell'autenticità, ecco il rintocco memoriale, nel vecchio poeta, di un suo Racine: "Elevée au-dessus de son sene timide..." ("Athalie", III, 3).

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