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Il laboratorio politico del comune medievale - Hagen Keller - copertina
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laboratorio politico del comune medievale

Descrizione


Un quadro sulle origini e sulla maturità dei Comuni italiani: il ruolo della comunità religiosa urbana, il condizionamento dei vescovi, la funzione sociale e istituzionale dell'aristocrazia, la capacità aggregante delle clientele vassallatiche vescovili. Nelle grandi città del Nord tutto questo innesca solidarietà nuove tra le famiglie nobili e i cittadini, che vedono promossi a livello politico maggiore i loro usi di convivenza e di organizzazione. Contesto urbano e contesto rurale descrivono l'innovazione politica e la domanda cittadina dove l'economia evolve. Il Comune medievale, e in particolare quello dell'Italia settentrionale, è un laboratorio alla continua ricerca di solidi equilibri. Su questa realtà gli imperatori devono regolare il rapporto, prendendo atto delle profonde differenze rispetto al regno teutonico. Prefazione di Giuseppe Sergi Degrandi.
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Dettagli

2014
1 gennaio 2014
408 p.
9788820760533

Voce della critica

  Il 4 ottobre del 1245 Federico II di Hohenstaufen, imperatore del Sacro romano impero, muoveva da Pavia contro Milano alla testa di un esercito poderoso. Sei settimane dopo avrebbe fatto mestamente ritorno: i milanesi avevano resistito, riuscendo addirittura a far prigioniero un figlio di Federico. Se lo storico Hagen Keller avesse potuto scegliere da che parte stare, tra le file dell'esercito imperiale o tra le mura di Milano, credo che avrebbe scelto le seconde. Questo nonostante sia tedesco (come la famiglia di Federico) e, certo, non perché sa come andò a finire. I motivi dell'interesse di Keller per la storia dei comuni italiani non sono legati a un generico esotismo: lo studioso, infatti, non ha mai abbandonato altri temi della storia europea ed è autore di una delle più importanti sintesi sulla storia dell'impero tra i secoli XI e XIII. Non si può neanche dire che Keller sia venuto a cercar fortuna in un contesto accademico più favorevole: la sua brillante carriera si è svolta tutta in Germania e alcune sue tesi sono state accolte con molta freddezza da una parte degli studiosi italiani. I comuni sono dunque solo uno dei suoi oggetti di studio – per quanto, forse, il principale – e, di sicuro, non sono mai stati per lui un terreno facile. Alla scarsa ricezione degli studi di Keller in Italia ha certamente contribuito anche la barriera linguistica: è un grande merito dell'editore Liguori l'aver messo a disposizione alcuni tra i suoi più importanti studi sui comuni. Grazie a questa raccolta il lettore italiano non specialista accede a un materiale forse non recentissimo (un solo saggio era inedito, mentre la gran parte dei restanti risale agli anni ottanta e novanta), eppure ancora sostanzialmente nuovo. Il fascino dei lavori di Keller consiste in primo luogo nell'originalità del punto di vista. Per tradizione consolidata, infatti, gli studi sui comuni italiani partono dagli esiti rinascimentali, tragici o spendidi che siano, e procedono a ritroso. Fino a non molto tempo fa il centro degli interessi dei "comunalisti" era costituito soprattutto dal Duecento, il secolo che, tra impetuoso sviluppo economico e avvicendamenti politici rivoluzionari, somigliava alla contemporaneità novecentesca. Anche se tutti sapevano che le origini dei comuni erano ben più antiche, erano soprattutto le basi ideologiche e materiali del Rinascimento che interessavano. Questo rendeva particolarmente frequentati il Duecento e il Trecento: i secoli del trionfo "popolare/repubblicano" e della "crisi signorile/monarchica", gli ingredienti del dibattito politico d'età moderna. Keller, invece, parte dal mondo feudale (i bellatores, gli oratores e i laboratores di Adalberone di Laon) e si sforza di capire come da esso sia sorto il comune. Lo studioso non è stato il primo ad attaccare alle spalle la storia cittadina: tra gli italiani Giovanni Tabacco e Cinzio Violante avevano compiuto questo rovesciamento di prospettiva già nella generazione precedente. Tuttavia Keller è giunto a conclusioni più radicali: la società feudale e quella del primo comune sono molto più simili di quanto comunemente non si crede ed è sbagliato, secondo lui, ipotizzare che quello urbano fosse all'inizio un ambiente tendenzialmente egalitario, indifferente alla stratificazione ereditata dal passato. Anzi, Keller riconosce ai nobili, ai vecchi feudatari del vescovo, un ruolo di primo piano nella politica del primo comune. Per comprendere quali siano le conseguenze di questa forte e coraggiosa presa di posizione occorre forse spiegare cosa si sa e cosa non si sa ancora delle origini dei comuni. Una cosa che non si sa, ad esempio, è quando le città hanno cominciato ad agire come enti autonomi. Si sa, invece, che questo è successo molto prima della comparsa dei consoli, delegati all'esercizio delle principali funzioni di governo. La dimestichezza con la società dei secoli X e XI permette a Keller di indagare nella preistoria del mondo comunale: prima, cioè, dell'attestazione dei consoli e molto prima che all'autonomia cittadina fosse dato il nome di comune. Qui lo studioso individua tanti diversi momenti di vita collettiva organizzata, ma secondo lui la vera svolta è costituita dalle "paci di Dio". Si tratta di movimenti di ispirazione religiosa con finalità politicamente forti e concrete: imporre a tutta la collettività il rispetto di una pace e di una concordia giurate. Sotto varie forme questi movimenti sono presenti in molte città del secolo XI e anticipano, nei fini e nelle modalità di organizzazione, i comuni veri e propri. Il problema, specie per chi crede in una specificità urbana italiana, è che questi movimenti non sono affatto specifici della penisola, ma si trovano anche altrove in Europa nei decenni attorno al 1000, sia nelle città sia fuori. Perché allora i comuni nacquero in Italia e non altrove? Si deve all'anarchia che contraddistinse l'Italia più o meno dalla lotta per le investiture alla prima discesa in Italia di Federico Barbarossa, il nonno dello stupor mundi. In quei settant'anni circa (tra 1080 e 1154) le città che avevano sperimentato i giuramenti collettivi sul modello delle "paci di Dio" diventarono degli autentici laboratori politici: quei giuramenti poterono evolversi in qualcosa di stabile. In questi laboratori si inventò, letteralmente, un nuovo modo di stare insieme: leggi certe e scritte, approccio collettivo alle decisioni, anche attraverso un personale selezionato secondo precisi criteri di rappresentatività e idoneità. Il fatto che la società comunale non fosse egalitaria, ma suddivisa in ceti, rendeva la sfida ancora più complessa. L'ipotesi di Keller di un comune composto fin dall'inizio di nobili e semplici cittadini, i primi ben distinti dagli altri, renderebbe ancor più significativo il successo della convivenza. Ciò fa apparire le città italiane forse meno originali, ma rende possibile un confronto con il resto dell'Europa: quello del comune fu un modello che avrebbe potuto essere replicato altrove. Se ciò non avvenne (o avvenne in tempi e modi molto diversi) occorre chiedersi via via perché e non accontentarsi di celebrare l'apogeo medievale italiano come un unicum nella storia mondiale. L'interesse che questo volume può suscitare nel lettore non specialista non si ferma qui. Non potendo soffermarci, per motivi di spazio, sulla ricchissima sezione di saggi dedicata a Milano, resteremo ancora sugli idealtipi comunali che Keller sottopone a critica severa. Lo storico non teme di affrontare il nodo più spinoso della questione comunale: la nascita del comune segna anche la nascita (o rinascita) della democrazia in Europa? Forte della sua gigantesca statura di studioso, Keller prima indaga l'evoluzione del principio di maggioranza e il grado di rappresentatività delle istituzioni cittadine, poi paragona il nostro concetto di democrazia con il modello comunale. Non aspettiamoci facili attualizzazioni: non è nello stile dello studioso. Eppure, ad avviso di chi scrive, sono proprio le peculiarità della "oligarchia comunale" (uso le parole di Keller) a renderla istruttiva. Il comune fu un sistema capace di coinvolgere nella decisione migliaia di individui anche senza chiamarli in massa a offrire il consenso. La grande assemblea dei capifamiglia nella quale si prendevano decisioni valide per tutti è più un mito che una realtà. Si organizzavano invece tanti piccoli consigli ristretti, magari dedicati a particolari ambiti di governo. Il gruppo dirigente comunale aveva infatti ben chiaro che il consenso di una grande assemblea sarebbe stato inevitabilmente generico e plebiscitario. Nonostante il fascino che esercita ancora oggi la variopinta corte di Federico II, Keller, credo, avrebbe trovato molto più seducenti le grigie mura della Milano comunale.   Enrico Faini  

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