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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2020
Anno edizione: 2007
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Rifugiarsi nella lettura è una pratica comune per noi lettori e diviene essenziale per Azar, che si aggrappa alle parole di James mentre vengono sganciate bombe a pochi passi da casa sua, e per le sue ragazze per le quali il club di lettura rappresenta l’unico momento liberatorio. Ciò che più ho apprezzato di questo memoir è la capacità narrativa della Nafisi : nonostante gli argomenti culturali e storici siano “pesanti” e complessi la lettura scorre veloce e risulta di facile comprensione. Per l’aspetto puramente letterario ho trovato di grande interesse le sue opinion in merito ai romanzi, tanto da spingermi a riconsiderare il mio parere su alcuni. È proprio questo che questo memoir ti spinge a fare, rivalutare ogni cosa, guardare da una diversa prospettiva: un libro che rimane dentro anche dopo averlo terminato perché tratta di vita vera, quella che continua nonostante tutto.
Il libro ha tematiche forti e interessanti. Ottima l'idea di raccogliere donne diverse in segreto per analizzare la mancata libertà di ognuna per causa della dittatura islamica. All'inizio lo stavo leggendo con piacere ma durante la lettura è diventato noioso e ripetitivo. Il libro è diventato più un analisi profonda dell'opera "Lolita" che la storia di queste donne. Di tanto in tanto recuperavo l'interesse ma per me è stata una lettura nel complesso faticosa.
Un viaggio. Nella letteratura e nella Repubblica Islamica. E' un libro ben scritto, scorrevole e incisivo se si conoscono le opere che l'autrice descrive: Lolita, Il grande Gasby, Bellow; in caso contrario non escludo che la lettura possa essere meno efficace ed affascinante. Le donne, l'Islam, la paura, la femminilità, la cultura, la sottomissione, la rivoluzione, l'uomo, la guerra,la cultura, c'e' davvero tutto qui dentro e non annoia, mai.
Recensioni
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Nel 1995, abbandonato l'incarico all'università dove insegnava letteratura angloamericana, Azar Nafisi propone a sette delle sue migliori studentesse di trovarsi a casa sua, nel primo giorno del weekend, per discutere di letteratura. Un seminario privato: per due anni Nafisi vede le ragazze entrare nel suo salotto, "togliersi il velo e la veste e diventare di botto a colori". Il fatto è che insieme al velo "si levavano di dosso molto di più. Lentamente, ognuna di loro acquistava una forma, un profilo, diventava il suo proprio inimitabile sé". In quelle mattine le otto donne leggono Nabokov, Henry James, Jane Austen. Discutono con passione di Lolita e di Daisy. "Il seminario diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi". Nel loro rifugio Nafisi e le sue ragazze guardano il mondo Cattraverso l'occhio magico della letteratura". Ma sono pur sempre a Teheran, e fuori da quel salotto restano grigiore e proibizioni: così, avverte Nafisi, "è di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi riesce impossibile farlo senza raccontare anche di Teheran".
È questo Leggere Lolita a Teheran: il racconto di come una donna (l'autrice) attraversa la rivoluzione islamica iraniana con un bagaglio di romanzi e una gran fiducia nella letteratura, "arte della complicazione umana". Solo che non sono ammesse sottigliezze né "complicazione umana" nel mondo in cui vivono lei e le sue studentesse. È un mondo di romanzi sconsigliati, di ragazze punite se hanno le unghie dipinte, persone che hanno dovuto imparare a non esprimersi apertamente. Nafisi cita il Nabokov di Invito a una decapitazione: insopportabile "non è il vero dolore fisico o la tortura che si infligge in un regime totalitario, bensì l'incubo di una vita trascorsa in un'atmosfera di continuo terrore". Per prima cosa dunque Nafisi vuole trasmettere l'esasperazione di una vita regolata da "norme ottuse", dove un bambino si sveglia terrorizzato perché "ha fatto un sogno illegale": il senso di oppressione di un regime che "negava valore all'opera letteraria, a meno che sostenesse l'ideologia", un regime, del resto, dove il capo del comitato di censura cinematografica è un cieco... Il seminario diventa per loro "un corso di autodifesa" da tutto questo. Ancora Nabokov: "La curiosità è insubordinazione allo stato puro".
Perché Lolita? Nella storia della ragazza di dodici anni tenuta "di fatto prigioniera" dall'uomo che ne fa la sua amante, Nafisi e le sue studentesse vedono "una denuncia dell'essenza stessa di ogni totalitarismo". Ne discutono a lungo, fanno paralleli: a Lolita, dicono, "è stata sottratta non solo la vita ma anche la possibilità di raccontarla". Anche loro sentono di aver perduto qualcosa: la generazione dell'insegnante ha perduto una libertà passata, le più giovani hanno "ricordi fatti di desideri irrealizzati". Tutte hanno imparato a "mettere una strana distanza tra noi e l'esperienza quotidiana della brutalità e dell'umiliazione". Ecco l'accusa: "Il peggior crimine di un regime totalitario è costringere i cittadini, incluse le vittime, a diventare suoi complici".
Traspare un'urgenza, da queste pagine. Non solo trasmettere quel senso di soffocamento, o forse di spiegare perché l'autrice, come molte delle sue giovani amiche, cercheranno di sottrarvisi andando via. Più ancora, è la necessità di riflettere su "come siamo arrivati a questo?". Qui l'autrice torna indietro nel tempo, e offre un raro racconto "dall'interno", soggettivo e intriso di partecipazione umana, di eventi che abbiamo visto da lontano, per lo più nei loro risvolti politici. Siamo nel 1979, quando Nafisi, terminati gli studi negli Stati uniti, torna a Teheran: la rivoluzione - per cui anche lei si era battuta, come tanti studenti iraniani all'estero che avevano lottato contro lo Shah - era vittoriosa. Nafisi comincia a insegnare letteratura angloamericana all'Università statale di Teheran. L'università era allora il principale teatro di scontri ideologici tra le correnti rivoluzionarie di sinistra e quelle islamiche; Nafisi parla di Fitzgerald e di Twain tra assemblee sull'imperialismo e di denuncia della società borghese, discute di Hucklberry Finn e di Gatsby mentre gli studenti islamici occupano l'ambasciata americana. In queste pagine - forse le più appassionanti - vediamo lo scontro riassunto nello strepitoso "processo" a Gatsby istituito dalla professoressa Nafisi, con tanto di giudice, giuria, accusa e difesa. Gatsby esprime il materialismo decadente del mondo occidentale, accusano studenti che citano Khomeini e vorrebbero letture "rivoluzionarie" e moralizzatrici. Ma un romanzo è bello se riesce a mostrare la complessità degli individui, ribatte la difesa. Intanto, "sulla scena politica si assisteva a una specie di replica del nostro processo": i romanzi "decadenti" scompaiono poco a poco dalle librerie - finché scompaiono anche le librerie.
Dopo mesi di scontri, arresti, morti, le correnti islamiche prendono il controllo delle università, le correnti di sinistra sono sconfitte, le voci laiche zittite. La "normalizzazione" arriva sotto forma di "comitato per la rivoluzione culturale". Le donne sono obbligate ad abbigliarsi in modo islamico, quelle come Nafisi lasceranno l'insegnamento (ma l'ipocrisia che colpisce chi visita l'Iran oggi era già presente allora, nelle parole del giovane islamico che chiede alla prof di adeguarsi: "In fondo è solo un pezzo di stoffa").
Con la guerra poi, trionfa la retorica della morte e del martirio. Ormai ogni critica è disfattista ("Per tutta la durata del conflitto il regime islamico non perse mai di vista la sua guerra santa, quella contro i nemici interni"). Il chador diventa una cosa "fredda e minacciosa": non sarà mai più quello che portavano le nonne, "è macchiato per sempre dalla connotazione politica che ha assunto". Imperversano gli slogan. L'unico rifugio è la lettura, nelle notti insonni per gli allarmi aerei ("tra le pagine resta la sirena dell'allarme").
Non c'è una semplice risposta al "come siamo arrivati a questo". La riflessione è accennata: quando l'autrice parla dell'università "che, come l'Iran, avevamo tutti contribuito a distruggere". Dove ricorda con sgomento la violenza verbale di quelle assemblee infuocate, da parte di studenti che spesso finiranno loro stessi vittima delle purghe. O dove, avverte: "Siamo tutti perfettamente in grado di trasformarci nel censore cieco, di imporre agli altri la nostra visione".
Era necessario ripercorrere tutto questo per tornare al seminario privato della professoressa e le sue studentesse: ora conosciamo i loro percorsi, quella sopravvissuta ad anni di carcere, quella che va al seminario di nascosto, quella che vuole emigrare... Ormai in Iran sono emersi "degli islamici di tipo nuovo", meno attenti agli slogan e più alla carriera, "liberali", pragmatici. Di fronte al dilemma "stiamo al gioco e lo chiamiamo dialogo costruttivo oppure ci ritiriamo dalla vita pubblica in nome della lotta al regime", alla fine della guerra lei era tornata a insegnare, prima di ritirarsi di nuovo, scettica verso le promesse dei "liberali" ("che ora chiamano riformisti"). Nel seminario ora discutono di James e di Jane Austen e delle incertezze personali di ciascuna, di fidanzamenti, di libertà individuale e di "diritto alla felicità". Le sue ragazze, osserva, condividono il "disagio che nasceva dalla confisca da parte del regime dei loro momenti più intimi e dei loro desideri". Vista da Teheran, l'affermazione "il privato è politico" non regge: "Non è vero naturalmente. Anzi, al centro della lotta per i diritti politici c'è proprio il desiderio (...) di impedire al politico di intromettersi nella vita privata", scrive Nafisi.
Il desiderio di evadere è condiviso. Alla fine evade Nafisi: parte per gli Stati Uniti. Porta l'avvertimento delle ragazze e di un vecchio amico-consigliere: "Non potrai scrivere di Austen senza scrivere anche di noi", le dicono: "La Austen che conosci è irrimediabilmente legata a questo posto". Proprio come Lolita, o Gatsby, "che hai letto qui, in un paese dove il censore è cieco".
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