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Alessandra Arachi ha quarantatre anni, è una giornalista del "Corriere della Sera", ha già scritto un paio di libri di reportage (Leoncavallo blues, Feltrinelli, 1995 e Unico indizio: la normalità. L'Italia a sud dell'Italia, Feltrinelli, 1997) e un terzo sulla sua adolescenza da anoressica (Briciole, Feltrinelli, 1994). Sul disturbo bipolare si incentra questo suo recente libro, che è al contempo autobiografico e divulgativo. Di questa patologia, in Italia per lo meno, si parla e si scrive poco: nonostante la sua diffusione è difficile farsi venire in mente un solo personaggio in qualche modo pubblico che abbia raccontato di esserne afflitto. Lo si dice di grandi artisti e scrittori deceduti (Whitman e Hemingway, Rossini e Caravaggio), ma con tutte le cautele di un'ipotesi diagnostica fatta a posteriori. Arachi costituisce dunque un'utile anomalia che permette di seguire da vicino i picchi e le tremende cadute di un umore instabile che sa placare l'incontrollabile eccitazione della fase maniacale (dodicimila chilometri percorsi in un mese con poche e brevi pause di sonno) solo con un eccesso di segno opposto di natura depressiva. Così la mente, prima sovraccarica di stimoli non filtrati ed emozioni travolgenti, si svuota rimanendo priva di appigli: "Non avevo più niente. Da fare. Da pensare. Da dire. Da immaginare. Da sognare. Da sperare. (
) Avrei voluto solo chiudere gli occhi e non avere più il mondo intorno". Dopo un primo ricovero questo vuoto sarà riempito con il pensiero tenace, messo in pratica ma fallito per una casualità, di lasciarlo in modo efficace, questo mondo. Il racconto è però molto di più dall'esposizione di un caso clinico. Sopravvissuta a se stessa, e con sapiente mestiere, la cronista usa parole asciutte e controllate per mettersi al servizio della donna che faticosamente ha saputo domare la propria malattia imparando a conoscerla, a tenerne sotto controllo gli eccessi, a lasciarsi aiutare da persone, terapie e farmaci e non se ne vuole più vergognare. Il suo racconto, pur così carico di sofferenza, è lieve, riesce a non avere pudori senza mai essere morboso; è uno scritto consapevole, che però predilige l'ironia e a tratti riesce anche a farci sorridere, come quando in clinica Alberto, che in cocaina ha speso una fortuna, la guarda con invidia e commenta: "Beata te, tutto questo casino gratis".
Tiziana Magone
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