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Maestri e leggende del Talmud - Elie Wiesel - copertina
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Maestri e leggende del Talmud

Descrizione


Per affrontare un'opera complessa e profonda come il Talmud si rende necessaria una guida sapiente che conosca bene la strada, una guida che sappia valorizzare le pagine più battute come quelle più inesplorate. In "Maestri e leggende del Talmud" Elie Wiesel riesce a restituirci tutta la ricchezza dell'universo talmudico attraverso le vicende di alcuni personaggi emblematici. Incontriamo Shammai e Hillel, con i loro allievi contrapposti in un dibattito eterno, rabbì Shim'on bar Yochai e suo figlio El'azar, rabbì 'Aqivà, rabbì Meìr esua moglie Brurià, e tanti altri ancora. Con loro c'è la Storia: le persecuzioni, la rivolta di Bar Kokhbà, l'Impero romano, la caduta di Gerusalemme; ci sono i viaggi e i luoghi: Gerusalemme, ovviamente, e la Babilonia, ma anche Yavne, Roma e perfino il Pardès, il frutteto della conoscenza segreta; ci sono gli uomini, tutti: ebrei e pagani, vincitori e sconfitti, allievi e maestri, amabili o detestabili, scettici o mistici; e poi c'è Dio, onnipresente, a volte nascosto in un piccolo gesto quotidiano, altre volte nella gloria del miracolo, nella voce improvvisa del tuono o nella pioggia di rabbì Chiyà. Grazie a Wiesel, il Talmud, quest'opera maestosa, ci appare per quello che è in realtà: molto di più di un testo religioso. Una fucina inesauribile di saggezza, un laboratorio di forme espressive, un libro di avventure, uno scudo e un forziere, patrimonio dell'identità ebraica aperto al mondo. E soprattutto l'espressione «di una memoria collettiva che non si lascia mai sfuggire niente, perché niente ne resta al di fuori».
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Dettagli

2020
30 luglio 2020
300 p.
9788880577676

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rigus68
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Manca solo il dibattito sul sesso degli angeli

Wiesel, in un’introduzione seguita da 19 capitoli cerca di sviscerare il Talmud per renderlo comprensibile (e appetibile) a neofiti che forse non riuscirebbero ad apprezzarlo. Quasi tutti questi capitoli riguardano dibattiti tra rabbini e saggi dell’antichità, che si sfidano su argomenti più disparati e sulla corretta interpretazione dei libri sacri e dello stesso Talmud. Sullo sfondo, ci sono le tribolazioni del popolo ebraico, l’esilio in Babilonia, la seconda distruzione del Tempio e di Gerusalemme da parte dell’impero romano, la diaspora. Per quanto Wiesel dimostri una conoscenza approfondita del Talmud e dei suoi messaggi universali, questo tomo soffre di un problema di fondo: molti di questi dibattiti vertono su argomenti banali dal punto di vista del lettore moderno. Un esempio eclatante: nella celebre accademia di Yavne si scatena un violento dibattito tra rabbi Eli’ezer ben Hyrcanos e una congrega di sapienti sul fatto che una fornace in grès sia pura o impura. Eli’ezer opta per la prima soluzione, ma tutti gli altri saggi si oppongono. Allora Eli’ezer invoca una serie di miracoli, ai quali comunque i saggi non vogliono credere fino a quando una voce celeste si schiera con Eli’ezer. Ora che un sinedrio di saggi si accapigli per una banalità di questo genere, e che miracoli si compiano per dare ragione a un singolo, oggidì si ammanta di assurdo. E’ come il dibattito tra filosofi e teologi cristiani nel medioevo sul sesso degli angeli: ci volle il Concilio di Trento (1545-1563) a sancire che gli angeli non hanno sesso! Wiesel qui si diverte a bastonare tutti gli attori del dibattito, incluso Eli’ezer. Questo tomo sembra che riecheggi le Operette Morali di Leopardi e assomiglia al catechismo che ha tormentato la nostra gioventù. E’ un excursus pesante e pedante che forse farà la delizia di un lettore ebreo ma che per noi “gentili” è un macigno. Son felice che Wiesel sia stato insignito di Nobel per la pace, ma per fortuna non di Nobel per la letteratura!

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Voce della critica

Il prossimo 2 luglio saranno cinque anni da che Elie Wiesel ci ha lasciato. Ciò sarebbe potuto accadere molti, molti anni fa, ad Auschwitz. Ma per una qualche ragione non avvenne.

Ricordo di una storiella che mi fu raccontata una volta, su un fatto accaduto in quel campo di sterminio. Non so chi l’abbia raccontata la prima volta, né in quale raccolta si trovi, ma ha così fortemente colpito la mia immaginazione da darmi un’idea immediata, quasi sensoriale, di cosa fosse l’Ebraismo.

Un rabbino chiamò a raccolta un gruppo di uomini, prigionieri come lui, in uno di quei rari momenti in cui, magari, le guardie erano intente a occuparsi di qualcosa che li distraesse. Chiamò degli uomini e – il volto distrutto dal dolore e dalla rabbia – propose loro le sue personali conclusioni: «È ormai ovvio, fratelli, dopo tutto ciò che i nostri occhi hanno visto e i nostri cuori hanno patito, che Dio non esiste. L’abbiamo pregato incessantemente, l’abbiamo invocato senza sosta ricordandogli la sua Alleanza, elevando al cielo le nostre grida come al tempo dell’Egitto e di Babilonia. Ma non ci ha risposto. E poiché Egli non può essere sordo, in quanto ode ogni cosa, se non ci ha ascoltati è perché non esiste. Semplicemente. Già, Egli non esiste. Ed ora andiamo a pregare».

Il precetto che sopravvive alla fede!

Ma non come qualcosa di insensato; piuttosto come una necessità, come un antico ed incorruttibile filamento genetico. 613 mizvot, norme, precetti: 365 prescrivono ciò che non si deve fare, e 248 indicano gli obblighi, tutto ciò che dev’essere fatto; questi ultimi hanno lo stesso numero delle ossa perché – e lo compresi proprio ascoltando quel racconto – il loro scopo è quello di reggere un corpo, il corpo di un uomo o di un intero Popolo. Anche se questo corpo pensasse d’essere già morto, proprio come accadde in quell’inferno.

Così, pur nell’indicibile scenario di quel campo, l’ironia di quella storiella diventava, anch’essa come tante altre, testimonianza di una cultura che, proprio continuando ad autosostentarsi in questo modo apparentemente assurdo, permetteva di ritrovare – anche molte generazioni dopo – il filo di una fede che si sarebbe compianta come irrimediabilmente perduta.

Il racconto mi fece commuovere e sorridere, perché la sua sintesi non legittimava alcuna banalità; al contrario, testimoniava una forza collettiva incisa nella pietra della Storia come un comandamento: continua a vivere!

Immaginate dunque cosa accadde dentro di me quando, molti anni dopo, scoprii il libro di cui oggi si parla in questa rubrica: Maestri e Leggende del Talmud (408 pagine, 20 euro) di Elie Wiesel, edito da Giuntina, già pubblicato dalla Lulav Editrice nel 1991, con il titolo Celebrazione talmudica. Racconti e leggende.

Ma cos’è il Talmud? E per quale motivo lo si è ritenuto così importante da farne lo sfondo per un libro di 408 pagine, per di più destinato ad un pubblico ben più vasto di quello dei soli addetti ai lavori? La risposta potrebbe già trovarsi qualche riga sopra, nella descrizione di quello stupore che provai, pur non essendo allora – appunto – un addetto ai lavori.

Esiste sempre, in ogni ambito della cultura, persino in quella più rigidamente considerata di nicchia, un ramo di conoscenza che oltrepassa il perimetro del giardino incantato e raggiunge coloro che vi passeggiano fuori, porgendo i propri frutti.

Se poi, come in questo caso, l’autore del testo è uno scrittore tanto prolifico, e dunque conoscitore esperto non solo di ciò che intende raccontare, a anche di cosa un lettore possa o voglia trovarsi sotto gli occhi, mentre gira le pagine di un libro, allora niente di strano che persino una raccolta sulle leggende del Talmud possa risultare non solo appetibile, ma profondamente gustosa!

Ma non ho ancora risposto alla mia stessa domanda. Cos’è il Talmud?

Rispondo con le stesse parole dell’introduzione al testo:

Talmud significa studio. Studiare il Talmud significa studiare lo studio. […] Con la preghiera chiamiamo in causa Dio perché si intrometta negli avvenimenti che ci riguardano, ma è con lo studio che lo facciamo partecipare a dei dibattiti dove – d’altronde – non sempre fa una bella figura. È proprio così, e Dio stesso non può farci niente: in una discussione sull’interpretazione della Legge le parole del saggio pesano più della visione del profeta.

Avere a che fare con il Talmud, dunque, significa non solo avere a che fare con la Legge, e con le sue mizvot, ma anche con le sue innumerevoli interpretazioni, tante quanti sono i cuori degli uomini o le circostanze della vita. E dunque essere pronti alla disputa, allo scontro! Che è forse il modo meno ipocrita di incontrarsi davvero.

Elie Wiesel passa in rassegna, compilando perciò anche una preziosa sintesi storica, non solo i maestri che – generazione dopo generazione – si trovarono a dover interpretare la Legge per loro stessi o per chi chiedesse loro un consiglio su come comportarsi, ma le dispute – talvolta feroci, crudeli, iperboliche – tra i maestri e, naturalmente, tra i loro discepoli.

E ci si chiederebbe, con un po’ di utilitaristico spirito occidentale, che senso abbia arrovellarsi il cervello con cavilli, arringhe, dimostrazioni, casistiche, e liti furibonde, che magari hanno per oggetto un solo versetto della Torah!

La questione, lo ripeto, è quella delle 248 ossa.

Se in discussione fosse il nostro femore, e come montarlo per farlo funzionare correttamente, per poter camminare e utilizzare al meglio la gamba (magari per poter prendere a calci il nostro padrone di casa!), tutti comprenderemmo all’istante la necessità di una soluzione dove persino il conflitto sarebbe più che giustificato. E se fosse il cranio, che contiene il cervello, a dover essere montato per bene? O le costole, che presiedono alla difesa del cuore?

Insomma, dietro quelli che sembrano solo precetti c’è la vita, intesa come perseguimento di un fine che non è la comprensione di tutto, perché si dà interpretazione solo dove c’è Mistero; ma desiderio di eternarsi attraverso l’esercizio di quella cosa che – forse più di tutte le altre – sembrerebbe distante dall’idea stessa di eterno: l’umanità.

Il libro non è un saggio, né una semplice raccolta di racconti. Vi è la mediazione del suo autore, che da un lato descrive e spiega, dall’altro dice la sua su questo o quell’altro personaggio. Non è semplicemente un libro, ma qualcosa che – in qualche modo – ha fatto da sfondo alla vita di chi, tra romanzi e saggi, di libri ne ha scritti quasi sessanta! È dunque terreno ubertoso, quello del Talmud, delle leggende ad esso collegate e degli uomini che lo arricchirono con le loro dispute; terreno capace di produrre una ricchezza durevole e immarcescibile, che è il pensiero ragionato, dove la ragionevolezza non può mai diventare razionalismo: dove, cioè, lo spirito umano non si arrende davanti all’ignoto ma ne indaga i segni.

E come un bimbo si diverte a scoprire e catalogare le orme degli animali nel bosco, incurante poi se quegli animali siano ancora lì o siano andati via, allo stesso modo Wiesel ci racconta di uomini che, nelle loro dispute sulla Legge, furono disposti a vedere in essa l’impronta di un Dio che – poco sarebbe importato in quel momento – avrebbe potuto anche non esistere. Non era quello il punto! Non era la questione di Dio che le dispute talmudiche rincorrevano, ma la domanda sull’uomo, e sulla sua onestà intellettuale.

Intervenendo, controbattendo a perdifiato su uno yod della Legge, non si metteva in discussione che cosa Dio potesse pensare di tutto ciò, perché l’interpretazione della Legge, semplicemente, non era affar suo!

Può sembrare strano, ma è come quando un genitore dona una cosa preziosa al proprio figlio, sapendo che in quel momento si sta separando da quella cosa, e anche dal diritto di reclamarla; e che suo figlio potrà farne ciò che vuole, anche usare quella cosa per dimenticarsi di suo padre. Eppure, nel suo amore di padre, gliene fa dono ugualmente. Perché senza quel dono, suo figlio non crescerebbe.

Leggere le pagine di questo libro, scoprire fino a che punto si spingevano i maestri nel trovare nuovi sentieri interpretativi della Legge, mi ha fatto pensare un po’ alla stessa cosa: Dio ha dato la Legge agli uomini, e da quel momento in poi essa non gli appartiene più! Andando avanti con la lettura ho trovato molte volte conferma di questo, ma senza che mai una tale affermazione diventasse legittimazione ad una dimenticanza istituita. Tutt’altro! Dio puoi non vederlo, puoi non sentirlo, e potrebbe anche non esistere: ma la Legge ti aiuta ad obbedirgli, e il Talmud ti insegna a farlo, anche se si trattasse di una Mistica Assenza. Perché la vita dell’uomo è fatta di assenze, e bisogna imparare ad amarle.

Forti e delicati i molti passaggi che, obbedienti alla volontà dell’Autore, riescono ad assumere l’immagine e la somiglianza dei tanti personaggi descritti: maestri, rabbini che, ad un occhio estraneo a quell’universo, potrebbero sembrare tutti assolutamente uguali ed intercambiabili; nulla di più sbagliato. Anzi… Personalità talmente distanti, talvolta, da ritenere quasi impossibile che appartenessero tutti allo stesso orizzonte culturale e religioso! E queste differenze fanno cogliere non solo l’universalismo intrinseco alla Legge, donata da Dio a tutti gli uomini; ma anche l’attuale ricchezza del Talmud che, in qualità di contenitore secolare di tutte queste differenze, oggi più che mai diviene occasione di legittimazione al confronto e al dialogo.

Ma senza che mai, mai e poi mai, si passi per il più becero buonismo.

Frasi del tipo: Non sono d’accordo con la tua idea, ma darò la vita perché essa sia rispettata appartengono alle conquiste retoriche della nostra era e dei nostri salotti; non se ne trova traccia nel più viscerale Talmud, dove non si era tenuti a dare la vita per difendere l’idea dell’avversario (per difendere la sua vita sì, perché una vita vale più d’una idea) e dove però, al contempo, le conquiste degli argomenti non diventavano mai ideologie; e così, mio caro avversario, sii tu maledetto per ciò che hai appena detto, e sette volte possa inghiottirti lo sheol, ma poiché hai saputo argomentare la tua posizione, e spiegarla attraverso la parola dei maestri che ti hanno preceduto, e non attraverso la tua, allora mi inchinerò e tacerò, dichiarandomi sconfitto.

Possono sembrare contraddizioni, eppure mostrano continuità. Soprattutto quando, al di fuori delle scuole e dei contesti accademici sull’interpretazione della Legge, questi maestri si trovavano a dover fronteggiare una comune difficoltà, come la fame o la guerra, il martirio o l’oblio, e spesso in maniere completamente diverse, dove – esattamente come le diverse interpretazioni di una stessa mizvah – si potevano percorrere sentieri differenti senza per questo uscir fuori dalla stessa strada; senza, cioè, smettere di camminare insieme.

Un’introduzione, poi diciannove capitoli, poi un ultimo sguardo e infine anche un glossario, per un insieme di… 22 voci d’indice. La qual cosa ci piace, e pare che in qualche modo debba sempre succedere. Magari potreste pensare che sia solo un caso. Il Talmud dice che è legittimo sperare in un miracolo, senza che sia saggio dipendere da esso. Allo stesso modo, è bello che il numero in questione ritorni ciclicamente, quasi a voler mostrare che ci sono casi in cui la Parola conferma la Letteratura; e tuttavia non è necessario che ciò avvenga. Non dipenderemo da questo.

Ci lasceremo bastare la lettura di tutte queste storie, dove talvolta pare che Elie Wiesel vi abbia assistito in prima persona. E non è forse così? Non è forse, ogni buon racconto tramandato, una vittoria sufficiente sui ritmi troppo ordinati del tempo? Il tempo ordina, stabilisce, giudica; ma un racconto può rimescolare, rimettere in discussione, ed essere assolto persino dal tempo stesso, perché in fondo è a lui che sta rendendo un servizio.

È la stessa cosa che ci capita leggendo storie come queste, dove si percorrono secoli e secoli in poche pagine, percorrendo distante enormi che però non ci fanno invecchiare, come se fossimo portati dentro quei racconti; oppure sono quei racconti che sono portati dentro di noi?

In un caso come nell’altro, Maestri e Leggende del Talmud di Elie Weisel è un viaggio più che una semplice lettura; un percorso più che l’occasione di un intrattenimento. Nondimeno, intrattiene mentre ci accompagna. Continuando a sollevare domande, il che è il minimo quando si legge qualcosa del genere: non si può assistere a dispute appassionate senza tornare ad innamorarsi del senso più profondo di una domanda, che non è mai quello di ottenere una risposta a tutti i costi.

Un giorno un giovane chiese al suo maestro: «Rabbi, qual è la domanda più saggia, e anche la più difficile, che Dio potrebbe porre a sé stesso?»

«Chissà se l’uomo esiste…» rispose il maestro.

Il Talmud, in fondo, cerca di rispondere a questa domanda ponendone molte altre. Ed Elie Wiesel, come sempre, si consuma appassionatamente nel tentativo di una risposta. Anzi, ci piace pensare che abbia fatto della sua stessa vita una risposta.

Recensione di Nuccio Puglisi

 

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Elie Wiesel

1928, Sighetu

Scrittore e giornalista statunitense di origini ebraico-ungheresi, nato a Sighetu nel 1928 e morto a New York nel 2016. Sopravvissuto ad Auschwitz e Buchenwald, dove perde i genitori e la sorella minore, nell’aprile 1945 viene assegnato a un orfanotrofio francese. Dopo gli studi di filosofia alla Sorbona si dedica al giornalismo. La prima prova letteraria è un lungo racconto della sua esperienza nei lager, scritto in yiddish e pubblicato in Argentina nel 1955; consigliato da Mauriac (con cui instaura una profonda amicizia) ne ha affronterà poi la riscrittura in francese, dando vita a uno dei capisaldi della letteratura dell’Olocausto, La notte (1958): in una prosa scarna e frammentata, il romanzo descrive il sovvertimento di ogni valore umano, fisico e spirituale,...

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