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La malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non vale più
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La malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non vale più - Marco Panara - copertina
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malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non vale più
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La malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non vale più

Descrizione


Il lavoro nel mondo avanzato vale sempre meno e non riesce più a garantire il tenore di vita che credevamo di aver conquistato per sempre. Fra le cause della sua perdita di valore ci sono la tecnologia, che consente di sostituire con le macchine il lavoro umano in un numero crescente di attività, e la globalizzazione, che spinge per il trasferimento di industrie e società verso paesi dove il costo del lavoro è più basso. Gli effetti sono perversi: da una parte c'è un crescente trasferimento di ricchezza dai paesi occidentali consumatori ai paesi emergenti produttori; dall'altra nei paesi industrializzati la ricchezza prodotta si sposta dal lavoro al capitale nelle mani di gruppi ristretti mentre la grande maggioranza vede il suo reddito crescere marginalmente, fermarsi o diminuire, con un grande aumento delle disuguaglianze. A questo si somma il prezzo altissimo pagato dalle ultime generazioni condannate al precariato e indebolite da una progressiva riduzione delle garanzie offerte dallo stato sociale. Poiché il lavoro non è più il modo per costruirsi un futuro migliore, gli effetti sono profondi anche sui valori e sui meccanismi sociali. Prevale l'individualismo, la protezione dei propri interessi visti in contrapposizione con quelli collettivi, e peggiora la qualità stessa della democrazia, che fa sempre più fatica a trovare la somma di interessi individuali nella sintesi del bene comune.
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Dettagli

5
2010
4 novembre 2010
150 p., Brossura
9788842093855

Voce della critica

Gli economisti accademici si affannano da più di due secoli sul problema dei rapporti tra produzione e distribuzione del reddito e della ricchezza. Una scuola, quella ricardiana, li vede indissolubilmente legati tra loro, con la distribuzione che determina la struttura della produzione. La scuola neoclassica non vede invece il collegamento del rapporto tra profitti salari e rendite e la struttura della produzione. È la produttività marginale dei fattori a determinare la loro remunerazione. Una variante della scuola ricardiana, poi, vede la distribuzione determinata da fattori squisitamente politici, come ad esempio la lotta di classe o una politica monetaria nella quale il tasso di interesse non dipende dalla scarsità del capitale prestabile, come invece credono i neoclassici. Uno dei pregi del libro di Marco Panara è di aver esplorato questo tema "dal basso", partendo dai fatti della vita e della storia recente del capitalismo mondiale. E arrivando alla conclusione che quel che spiega meglio la crisi attuale e la scomparsa dei lavori ben remunerati in tutto l'Occidente è il vistoso peggioramento nella quota del reddito che va ai salari. Questo fenomeno inizia dalla fine degli anni settanta, quando si conclude quello opposto, trent'anni di miglioramento della distribuzione a favore dei lavoratori e di compressione dei profitti. A che cosa è dovuta questa inversione di tendenza? Certamente alla crisi del fordismo, che aveva dato potere ai sindacati in fabbrica, permettendo loro di spingere con successo per salari più alti – e la sua sostituzione con l'assai più flessibile toyotismo e con altri sistemi organizzativi della produzione che riducono drasticamente la rigidità della produzione data dalle catene di montaggio inventate a Dearborn. Certamente alla reazione degli imprenditori e manager dei paesi-centro, in particolare quelli americani, che hanno divisato ed eseguito la strategia della delocalizzazione di interi settori produttivi in paesi a bassi salari. Ma anche alla fantastica avanzata delle tecnologie della informazione e dei trasporti, che hanno reso questo gigantesco fenomeno possibile, veloce e pervasivo. Parte importante nella riorganizzazione del capitalismo hanno giocato infine le banche e le altre istituzioni finanziarie, nell'offrire ai lavoratori dei paesi-centro, minacciati dall'esodo delle imprese, un flusso sempre maggiore di possibilità di indebitamento, basato sulle capacità del bene patrimoniale per eccellenza, la casa, di rivalutarsi sui mercati, offrendo sempre maggiori possibilità di indebitamento ai proprietari. Naturalmente, il fenomeno a un certo punto ha trovato il suo limite superiore nella incapacità dei debitori a basso reddito di pagare interessi e rimborsare il capitale. La bolla immobiliare è quindi esplosa nei paesi come gli Stati Uniti, dove essa si era più patologicamente gonfiata, e la crisi mondiale è divenuta aperta, partendo non dalla periferia, come era accaduto in precedenza, ma dal cuore del sistema. Il principale merito di questo libro è dunque la chiarezza con la quale è spiegato il meccanismo che, prendendo le mosse dalla fuga del capitale dal settore manifatturiero dei paesi-centro verso i paesi a bassi salari, in particolare quelli asiatici, dove esistono condizioni economiche politiche e sociali molto peculiari, ha all'un tempo distrutto lavori ad alto salario nei paesi-centro e creato lavori assai meno remunerati in termini assoluti in quelli periferici. Non si fanno ragionamenti fumosi o astratti: tutto è trattato pianamente e con continuo ricorso a esempi molto calzanti tratti da realtà diverse e numerose. Ogni capitolo del libro è lungo poco più di dieci pagine, col risultato che i tredici capitoli di cui il libro consiste possono ciascuno trattare un argomento chiave, alla fine accumulando una assai cogente visione dei fenomeni studiati e dei rapporti che tra essi intercorrono. Bene fa l'autore a concludere il suo percorso con alcuni assai pertinenti commenti sugli effetti che i fenomeni esaminati nel libro possono avere, e infatti hanno avuto e stanno avendo, sul livello e sulla qualità della democrazia nei paesi interessati dalla grande ristrutturazione dell'economia e della società mondiale dopo la crisi. Ed è anche apprezzabile che l'autore non si sottragga al compito di terminare la sua trattazione fornendo alcuni suggerimenti su come "uscire dalla trappola" in cui il capitalismo mondiale è andato a cacciarsi. Né egli evita di impegnarsi, come dire, sul fronte interno, quello delle conseguenze dei grandi cambiamenti globali sulla economia politica e società del nostro paese. Una delle conseguenze della grande avanzata tecnologica nel settore delle informazioni e in quello della comunicazione consiste nel permettere una fioritura enorme di analisi "in tempo reale" della crisi che ancora ci avvolge. Sono letteralmente centinaia i volumi che le sono stati dedicati, in solo due anni, in tutti i paesi e nella maggior parte delle lingue. Saranno probabilmente migliaia solo tra qualche anno. Naturalmente, questo affollarsi di opere e interpretazioni richia di trasformare l'informazione in rumore, che ci frastorna invece che ammaestrarci. Per questo il libro di Panara è salutare. Esso infatti è chiaro e ben scritto quanto basta a permetterci di apprezzare i messaggi che contiene senza che essi siano soffocati dal rumore. Anzi, quel che Panara dice nei suoi tredici brevi capitoli ci guida nei meandri creati non solo dalla difficoltà obiettiva di capire quel che è successo e succede all'economia mondiale ma anche dalle parole di tutti quelli che, con le loro analisi confuse, ci tirano per la giacca in direzioni opposte, spesso spingendoci fuori percorso. L'analisi di Panara riesce ad aggredire problemi enormi senza alcuna presunzione, fondandosi su ricerche svolte da studiosi affidabili, delle quali sono fornite le coordinate, così che chi vuole può egli stesso approfondire gli aspetti che gli sembrano più interessanti. Naturalmente, non tutto quel che egli scrive è deterministicamente chiaro. I modelli che propone spesso non sono completi in tutte le loro variabili e sarebbe un vero miracolo se lo fossero. La realtà che analizza è ancora in pieno divenire, i fenomeni principali in pieno svolgimento. Ciononostante, il lume che egli ha acceso riesce a rischiarare meglio di molti altri apparentemente assai più potenti del suo. Marcello de Cecco

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