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Mania - Daniele Del Giudice - copertina

Descrizione


In una Edimburgo notturna e piena di voci, un uomo insegue il filo di una musica ascoltata per caso, e mai più ritrovata. Quella musica porta alla coscienza l'azione che deve compiere, e che lo attrae e atterrisce al tempo stesso. Il protagonista deve uccidere, questa è la sua azione: dovrà individuare il luogo e la vittima, come fossero una necessità, una chiamata... Questa è la trama dell'"Orecchio assoluto", il primo dei sei racconti che compongono il nuovo libro di Del Giudice, esempio di quel tipo di affabulazione fatta di conoscenza e mistero, passione e intuizione.
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Dettagli

1997
1 gennaio 1997
144 p.
9788806138837

Valutazioni e recensioni

2,75/5
Recensioni: 3/5
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Luvi
Recensioni: 4/5

Cosi trovo scritto da Tiziana Arvigo: "La narrativa italiana degli anni Novanta" in Nuova corrente, n. 120, 1997: "Del Giudice e' sicuramente uno dei narratori di punta di questi ultimi anni per il dominante carattere di 'ricerca' che ha assunto il suo lavoro. ... il suo potrebbe essere indicato come il tipico caso di autore i cui libri deludono il solito "lettore medio" perche' in essi apparentemente non accade nulla." Occhi per leggere... occhi per vedere... :-)

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Luca
Recensioni: 1/5

Mediocre.

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Prof. Giorgio Pantacuda
Recensioni: 1/5

Ho trovato questo libro (come pure le altre opere di Del Giudice) presuntuoso, noioso e narrativamente debolissimo. Vi prego di non censurare questo mio intervento. Grazie.

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Recensioni

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Voce della critica


recensione di Coletti, V., L'Indice 1997, n. 6

Davanti a questi racconti di Del Giudice il lettore avverte subito di non poter fare affidamento sulle coordinate che abitualmente orientano il suo giudizio. Si aspetta, come perlopiù in un'opera narrativa, personaggi, psicologie, vicende emblematiche, squarci di vita, e si trova invece dentro un'avventura della mente, nel vortice di una speculazione che si affaccia pericolosamente su ciò che la nostra cultura ignora o trascura, evita di considerare e di conoscere. Del Giudice in effetti è uno dei pochi scrittori che si ostina, lodevolmente, a percorrere nuovi itinerari, a proporsi nuove mete. Ogni suo libro, e questo più di altri, è una prova, una scommessa intellettuale e letteraria. In Mania l'obiettivo lascia le inquadrature consuete della narrativa e si volge verso casi limite e situazioni paradossali, radicalmente atipiche, per condurre una difficile esplorazione lungo i confini intellettualmente più ardui della realtà. Basterà un cenno ad alcune trame per sincerarsene. Il primo racconto ("L'orecchio assoluto") mette al centro un moderno emulo di Raskol'nikov, spinto a uccidere dall'impulso nascosto in una musica il cui autore è la vittima predestinata; il secondo ("Com'è adesso!") parla di un macabro concorso per indovinare di quale celebre attrice sia un cadavere sfigurato dalla lunga inumazione, un altro ("Evil live") consiste nella cronaca in diretta, tramite posta elettronica, del brutale corpo e corpo tra due donne, in cui le mosse sono tanto spietate quanto obbligate.
La ricerca ai confini del pensabile più negativo (il Male assoluto, la morte) ha le caratteristiche di una gara di razionalismo estremo che sonda l'assurdo muovendo dal dato più terribilmente certo e verificabile che esista: il corpo, la miserabile concretezza, l'insuperabile opacità della carne. I racconti di "Mania" prendono, quasi tutti, avvio da una sconvolgente esasperazione della dimensione corporea di cui viene isolato e ingigantito un particolare, un aspetto: l'udito e la vista (in "L'orecchio assoluto" il delitto è imposto dall'ascolto di un motivo musicale e chi crede d'averlo compiuto può essere smascherato da un granello di polvere), la vista e il tatto (in "Come cometa" narratore e protagonista mettono a fuoco guancia a guancia una cometa nello stesso binocolo), il dolore fisico (in "Evil live", che descrive con minuzia drammatica l'impasto di sofferenza e desiderio in due corpi femminili in lotta), il disfacimento del corpo (in "Com'è adesso!", quando la buia realtà anatomica prevale su tutte le finzioni e le maschere cosmetiche del giorno).
La sfida dell'intelligenza colloca il corpo nei punti in cui è esposto al fuori di sé, al contatto e alle sollecitazioni dell'esterno, alle forze che lo aggrediscono e corrodono. Di qui, in "Mania", un ascolto intenso della morte, della faccia nascosta della vita ("Abbiamo perso non solo il significato della morte, ma anche l'intimità con la morte, che una volta c'era"), del fondo sotterraneo dell'esistenza quotidiana, delle città, delle loro pietre ("il pensiero della morte non è altro che questo, la capacità di smorzare tutti gli altri suoni, vani e caduchi, per percepire il ronzio della comunità disincarnata"). Uno dei gioielli della raccolta, "Fuga", mette in scena, dietro la vicenda di un ragazzino che fugge da chi cerca di ucciderlo, un confronto sconcertante tra il calcolo più razionale (rappresentato dall'ordinatissima, cerebrale architettura di un cimitero) e il disordine più violento, il precipizio caotico della morte. Non sorprende allora che l'indagine tocchi anche il grande tema del tempo, contro il quale lotta invano l'uomo di sempre (in "Dillon Bay" una vecchia, complicatissima fortezza difende con scarso successo i suoi occupanti stipati nel tempo corto, inarginabile del moderno mondo virtuale, contro il quale nulla può la sua stravagante e generosa geometria basata su un tempo più antico "che si poteva perdere, guadagnare, arrestare").
Tante altre cose, altri elementi di riflessione si possono trovare in questi racconti, che coinvolgono il lettore in un'azione narrativa allo stato puro, avvinto non solo dall'attesa emotiva dell'esito delle diverse storie, ma anche dalla curiosità mentale per i loro sviluppi logici, ammirato e angosciato per un'oltranza speculativa, che sembra non porre limiti alla corsa avida e affannata della conoscenza.
Del Giudice dimostra con questo libro che la lezione di Calvino può essere ripresa e sviluppata ancora, che la speculazione più ardita può entrare in un libro di racconti senza farne uscire la narrativa. Dopo "Mania", non si potrà più temere che la prosa letteraria rimanga fuori da quella consuetudine con la filosofia, da quel processo di contaminazione del discorso estetico con quello speculativo per cui è stata grande (con Caproni, con Luzi, con Viviani) la nostra più recente poesia.


recensione di Givone, S., L'Indice 1997, n. 6

Accade talvolta (molto raramente, per la verità) che il discorso filosofico prenda atto della propria inadeguatezza ad affrontare quei grandi temi ultimi che la teologia cristiana chiamava i "novissimi" e che il pensiero ha ritrovato laicamente in concetti-limite quali il male, la morte, ma anche l'imprevedibile, il casuale, addirittura l'impensabile. Si tratta solo di inadeguatezza? O non piuttosto di impotenza, di impossibilità a trattare ciò che immancabilmente sfugge alla presa della razionalità discorsiva?
Sia come sia, sembra venire da qui l'idea che tocchi alla letteratura prendere la parola nel momento in cui la filosofia tace. Se la filosofia deve tacere intorno agli argomenti di cui non potrebbe parlare che in modo improprio, invece la letteratura è chiamata a dar voce precisamente a ciò che sembra destinato al silenzio. Al punto che il narrare diventa funzione di quegli stessi contenuti che la filosofia individua e insieme rimuove, consegnandoli alla letteratura. Non è un caso che, sulla base di presupposti del genere, ci sia oggi chi parla di "sapere narrativo". E anche chi ha creduto, come ben si sa, di poter identificare la filosofia con una forma di racconto. Sullo sfondo, l'idea che la filosofia stia comunque in un rapporto di profonda sintonia con la letteratura.
Il recente (e di grande interesse per il filosofo) volume di Daniele Del Giudice, "Mania", potrebbe essere letto in questa chiave. Che cosa, nelle sei "storie" che lo compongono, ci viene paradossalmente incontro se non il rimosso del pensiero? Ci viene incontro come corpo, attraverso il corpo, a partire dal corpo (non è il corpo, il rimosso del pensiero?).
Senonché Del Giudice non si limita a evocare il rimosso del pensiero. Piuttosto, va alla ricercadell'asse intorno a cui farlo ruotare, in modo che l'indicibile o il più difficilmente dicibile sia detto, il non pensabile o il più difficilmente pensabile sia pensato. E lo trova, questo asse, sia facendo precipitare la conoscenza al suo grado zero, dove capire è sentire e lo è tanto radicalmente da convertirsi in ossessione, in mania, sia elevando questa ossessione, questa mania, alla conoscenza. Sicché conoscere non è più l'atto di un soggetto che afferra un oggetto e lo fa suo, ma viene configurandosi piuttosto come un patire, un essere invasi, un farsi luogo di rivelazioni. Estrema metamorfosi del "pathei mathos", se si vuole. Nel senso propriamente tragico del termine. Conoscenza non si dà che nel dolore, nell'esposizione alla potenza aliena "riconosciuta" come la più intima e la propria.
Ciò vale per tutti i sei racconti. E specialmente per quello che sembra sottrarsi a questa dimensione, dal momento che ha i tratti dell'opera buffa piuttosto che quelli della tragedia. Mi riferisco a Fuga, meraviglioso e perfetto "notturno" napoletano. La macchina del racconto sviluppa un doppio effetto di dissociazione: spazio-temporale e linguistico. Spazio-temporale, in quanto il "mito", la trama narrativa scivola senza soluzione di continuità da Napoli a Napoli, da Napoli malavitosa a Napoli metafisica, e infatti i protagonisti di un furto con inseguimento e pistolettate vengono a trovarsi loro malgrado sulla scena estrema di un trionfo della morte. Ma anche linguistico, a misura che l'intera pantomima è intonata musicalmente e il canto, che precede e via via accompagna gli eventi, non è che il risultato di una metabasi del linguaggio. Qualunque cosa accada, quale che sia il messaggio, l'intimazione, o altro, tutto è già inscritto nelle parole di antiche melodie.
Che un vecchio maniaco (maniaco di quelle, le canzoni) non sappia comunicare se non citandole e non si trattenga dal farlo neppure a rischio della vita, non è però semplicemente il pretesto per descrivere comicamente un'incantevole ossessione. Piuttosto, qui si tratta di liberare da un comportamento maniacale qualcosa come una possibilità di conoscenza. Anzi, qualcosa come un'originaria intonazione alla quale non solo le parole ma prima ancora i fatti "corrispondono" dispiegandosi come nella trama di uno spartito. Per ottenere questo risultato occorre che non l'azione, non l'afferramento della cosa attraverso il nome, bensì la passione, l'esposizione del linguaggio al suo lato in ombra e muto, governino l'impresa cognitiva e insieme la "fabula". Il che certamente è comico. Ma non meno tragico. Nel senso, appunto, che conoscenza non si dà se non nel dolore, nella passione.
Sappiamo quanto Del Giudice sia scrittore che ama il nominare esatto, frutto di una "mathesis" letteraria che ha il suo modello nell'assoluto rigore delle grammatiche scientifiche e tecnologiche. Nel suo ultimo libro non sospende, non abbandona questa poetica. Al contrario, in virtù di essa egli si spinge fino al punto in cui l'oggettività, puro dispiegamento della macchina narrativa, si rovescia nel suo contrario, ed ecco, conoscenza non è più quello che era, perché adesso è dolore per un senso che non si lascia oggettivare, è passione per l'inafferrabile canto del mondo, è mania - "theía manía", ossessione propria di chi non possiede ma è posseduto. Posseduto da che cosa? Ma questo resta non detto, naturalmente. Al critico, semmai, riconoscere che siamo di fronte a una superba prova d'autore. Al filosofo, che si tratta di un'occasione per pensare.

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Conosci l'autore

Daniele Del Giudice

1949, Roma

(Roma 1949) scrittore italiano. Ha esordito con Lo stadio di Wimbledon (1983), che narra l’inquieta ricerca di un giovane intorno alla vita − e al silenzio − dello scrittore triestino Bobi Balzen. L’avventura della percezione, nell’impegno di «vedere oltre la forma» e tracciare una mappa del mistero della creazione, è il tema dominante dei romanzi successivi (Atlante occidentale, 1985; Staccando l’ombra da terra, 1994), dei racconti (Mania, 1997, premio Grinzane) e della raccolta di scritti In questa luce (2013), sorta di autobiografia intellettuale.Da ricordare anche il saggio Nel segno della parola, scritto con Umberto Eco e Gianfranco Ravasi (BUR 2005).Fonte immagine: edizioni Einaudi.

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