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Charles Bovary medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice - Jean Améry - copertina
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Charles Bovary medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice
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Charles Bovary medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice - Jean Améry - copertina
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Dettagli

1992
1 gennaio 1992
160 p.
9788833906768

Voce della critica


recensione di Morello, R., L'Indice 1992, n.11

"Les maris trompés qui ne savent rien, savent tout, tout de mˆme". Con questa ironica citazione proustiana si apre il romanzo-saggio di Jean Améry "Charles Bovary, medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice", affascinante pamphlet che interroga e ripercorre la storia di "Madame Bovary" da una nuova, inconsueta angolatura: quella del goffo e ridicolo dottor Bovary, al quale Flaubert sembra aver voluto negare un'autonoma personalità, relegandolo nel ruolo umiliante del marito ingannato.
Apparso in Germania nel settembre del 1978, poco prima della tragica fine di Améry a Salisburgo, il libro viene proposto ora dalla Bollati Boringhieri nell'elegante versione italiana di Enrico Ganni. Jean Améry, pseudonimo di Hans Mayer, nato a Vienna nel 1912, è noto al pubblico italiano per i saggi "Intellettuale ad Auschwitz" e "Rivolta e rassegnazione: sull'invecchiare" tutti, nonchè "Levar la mano su di sé", inquietante apologia della "morte libera", interpretata come estrema affermazione di autonomia individuale. Tutti e tre i volumi sono pubblicati da Bollati Boringhieri. E appunto alla prospettiva di questi saggi, ossia alla grande alternativa tra rivolta e rassegnazione, si ricollega anche il Charles Bovary. Per Améry infatti il dottor Bovary non può essere il ridicolo piccolo borghese descritto da Flaubert, o almeno non lo è esclusivamente. Anche un povero medico di campagna, al pari di qualsiasi altra persona, aspira ad essere qualcosa di più di ciò che è, ad elevarsi oltre gli angusti limiti della propria condizione sociale e morale. In un patetico soliloquio, che contraddice la querula meschinità che lo contraddistingue, Bovary trova il coraggio di infrangere il contegno imposto dalle buone maniere, rivelando al lettore di aver intuito e patito anch'egli il dramma e la disperazione di Emma. In preda al pathos di un'indomabile passione egli scandaglia impietosamente gli abissi dell'eros; smarrito ogni decoro borghese, ma anche spogliatosi della propria mediocrità, cessa di essere il marito e si scopre amante, l'unico vero amante degno di Emma Bovary.
"Charles Bovary" è anche una reazione a Sartre e al "suo" Flaubert. Ne "L'idiot de la famille" (1971) l'intellettuale militante e di opposizione radicale, che era stato il grande modello intellettuale di Améry, si trasforma fatalmente in un filosofo borghese "tout court", infiammando l'umanesimo radicale e l'illuminismo di Améry - nonché il suo senso ebraico della giustizia - sino a farlo prendere partito per il personaggio, contro l'autore in nome della verità. Améry contrappone al "roman vrai" di Sartre il suo romanzo della verità. Pur sapendo come scrittore che la maestria stilistica di Flaubert scaturisce proprio dal suo odio e dal suo rifiuto della realtà prosaica, come moralista si ribella contro la pretesa oggettività del romanziere definendola un'egoistica mistificazione. "Bisogna amare gli uomini" - rammenta citando Büchner - "per poter cogliere l'essenza di ciascuno di essi; nessuno deve apparire troppo umile o brutto, solo allora è possibile comprenderli veramente". Ciò che Améry rimprovera a Flaubert è dunque lo scarso amore per i personaggi e per l'umanità in genere, l'arrogante e aristocratico disprezzo verso tutto ciò che è comune. Salvare Bovary come "uomo semplice", vuol dire anzitutto restituirgli, a dispetto della sua patente di sempliciotto, quella dignità umana che egli, nonostante tutto, merita e che l'impietoso e sommario ritratto flaubertiano gli ha tolto.
Améry stigmatizza l'odio antiborghese di Flaubert, evidente in talune feroci caricature come quella del farmacista Homais, l'apostolo del progresso, denunciandone il carattere implicitamente antidemocratico. Il disprezzo per la stupidità infatti può tradursi anche in rifiuto di ciò che essa ha di conciliante sul piano umano, così come l'insofferenza per il luogo comune degenera in una tronfia pretesa di superiorità intellettuale, sprezzante nei confronti dei comuni valori della dimensione sociale. È la rivolta della prosa borghese contro la poesia, della semplicità contro la complicazione intellettuale, della conciliante banalità quotidiana contro l'intransigente crudeltà dell'intelligenza. M. Bovary innalza il suo "J'accuse" contro Flaubert, reo di avergli negato i suoi diritti di uomo e di borghese. "La accuso - afferma tra l'altro Bovary nella sua disperata requisitoria - perché della mia stupidità, o di quanto lei riteneva tale, ha fatto una colpa". Come si legittima questa rivolta paradossale, destinata comunque al fallimento, poiché l'opera è scritta e "les jeux son faits"? Améry, lo strenuo difensore della "vita offesa", ha sempre rivendicato il valore universale delle ragioni individuali, sostenendo la priorità della persona sulle grandi e mistificanti affermazioni di principio. Améry è la voce di una coscienza inquieta e irriducibile che ha fatto del dubbio radicale - contro ogni apparente ragionevolezza - un'arma per affermare il proprio diritto ad esistere. Anche quando questa esistenza è di per sé precaria, come quella di un personaggio letterario, la cui verosimiglianza è legata al "patto" che l'autore ha stretto con la realtà rappresentata.
Emma Bovary è e rimane l'unica protagonista del romanzo, "per lei, solo per lei si infiamma il genio del poeta" ed anche lui, Charles Bovary, condivide. Alla fine ritira la sua denuncia e tace; l'uomo ritorna nel nulla, il personaggio riconfluisce nel romanzo da cui era inopinatamente balzato fuori, ma il suo atto di accusa rimane a testimoniare il dolore di una ferita insanabile, che è la vita stessa, e non cessa di incolparci, come il messaggio che il suicida lascia dietro di sé, come tutto ciò che è estremo e proteso verso l'impensabile.

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Conosci l'autore

Jean Améry

(Vienna 1912 - Salisburgo 1978) saggista austriaco. Studiò a Vienna filosofia e letteratura. Lasciata l’Austria nel ’38, partecipò in Belgio alla resistenza contro il nazismo e fu internato in un campo di concentramento. Dopo la guerra visse a Bruxelles come giornalista. Nei suoi saggi spazia da temi storico-culturali (Nascita del presente, Geburt der Gegenwart, 1961; Figure e forme della civiltà occidentale dalla fine della guerra, Gestalten und Gestaltungen der westlichen Zivilisation seit Kriegsende, 1961; Intellettuale ad Auschwitz, Jenseits von Schuld und Sühne, 1966) a problemi etici, come la rivolta dell’individuo contro l’appiattimento della società moderna o come il suicidio, in quanto affermazione di libertà (Levar la mano su di sé, Hand an sich legen, 1976; Lefeu o La rottura, Lefeu...

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