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Anno edizione: 2006
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Io non ho letto l’ultima opera di Ricotta. Mi è stata raccontata, somministrata a piccole dosi come per curare uno stato di anemia e infondere euforia alla creatività dormiente, o come un veleno, blando, che aiuta a liberarsi dalla maschera ghignante del quotidiano. A poco a poco, capitoli, pagine, brandelli scomposti, nei nostri incontri dell’ultimo decennio, lasciando a me il compito oneroso di dare un posto alle tessere del mosaico, per ricomporre un quadro che fosse quanto più vicino possibile alla realtà narrata. Spesso saltava frasi, una descrizione, un’immagine intima. Pudore di mostrare senza veli la sua storia? Ma quel che occultava non era difficile da immaginare, troppo vicine le nostre vite, simili le esperienze che hanno mosso i nostri passi, unico l’ambiente, il suo mondo, il mio. Frammenti di vita messi insieme a fatica che l’autore racconta a se stesso per non dimenticare. Padre Deodato, immagine di un passato visto con occhi nostalgici di fanciullo, il fratello maggiore, sostegno sicuro alle prime incertezze, San Frangiore, contrada d’elezione, giardino fatato dei giochi, con le sue grotte e i suoi anfratti da usare a nascondiglio. Un mondo rivissuto che conserva intatto un passato che si snoda nella lotta tra l’apparire e l’essere. L’autore, da uomo profondamente religioso, capace di scandagliare le profondità nascoste dell’anima sofferente, ha scelto l’essere. Ha avuto il coraggio di non disperdere la sua esperienza lasciandosi trascinare dalla fantasia, anzi, l’ha controllata da vicino per non esserne travolto, così come ha controllato la lingua, rifuggendo da ogni barocchismo. Il suo linguaggio è diretto, asciutto, essenziale, non un aggettivo sprecato. Egli non ha giocato con le parole facendone ghirlande, ma ha usato quelle che servivano, il superfluo l’ha gettato via. La sua vita: l’emblema di ogni vita nella sua corsa dalla sofferenza alla redenzione. La sua santità: l’apertura incondizionata del suo animo verso l’altro, il prossimo. Peppe Messina
Raggiungere Dio e liberarsi di Dio. Senza il miraggio di olimpiche serenità finali né smerciando furbi sgomenti pascaliani, l’ultima frontiera di scommesse che comunque si vogliono pur sempre vincere. Un’unica certezza invece il libro di Mario Ricotta ci consegna. Nulla è garantito, neppure torcendosi in vertiginosi tormenti. Anche premi e punizioni dell’al di qua e dell’al di là sembrano piuttosto argomenti contro Dio. Assoluto resta soltanto il bisogno di Assoluto. Tanto che nelle pagine finali del romanzo sembra di risentire la supplica atea di Giorgio Caproni: una preghiera a Dio non perché esiste ma perché esista. La mia santità è un’opera in cui si sente il pensiero, non la fatica del pensare. Rende chiaro il profondo con un lirismo privo di funambolici virtuosismi. Quelli che autori a corto respiro usano per tappare penurie d’interiorità. La lingua qui invece aderisce perfettamente alle ossessioni del personaggio, senza che il lettore - neppure per un attimo - se ne distacchi distraendosi ad ammirare la bellezza della parola scritta. Occorre perciò chiudere il libro per accorgersi di quanto letterario sia lo stile usato. L’abilità di nascondere la propria cifra stilistica e, ne siamo sicuri, persino le preoccupazioni linguistiche sono un merito raro anche in celebrati scrittori. Importa poco perciò che il romanzo non sia costruito con una canonica architettura narrativa e secondo piani temporali scanditi e consequenziali. Molto più significativo è ciò che l’autore è riuscito a evitare. Pur avendone tutte le opportunità tecniche e professionali (Mario Ricotta fa lo psichiatra di mestiere), non ha rifatto Il male oscuro di Berto. È andato oltre; non l’inconscio come approdo ultimo, non la compiaciuta richiesta di comprensione o compatimento del lettore, ma come un argonauta dello spirito si è librato sino ai cieli metafisici per una domanda impossibile anche all’onnipotenza divina.
“La morte in un tripudio di caramelle multicolori” La mia santità di Mario Ricotta “Nell’ora in cui la morte si presenterà, sotto qualsiasi aspetto sia, fai che sia un tripudio di luce, un sfolgorio, una festa di musica, un banchetto finale di delizie! Sarò seppellito con il solito, inutile rito! Io non ho conseguito la santità. Questa è la mia santità!”. Una storia senza tempo, quella di Mario Ricotta: medico, psichiatra, drammaturgo, autore della “Mia santità”, romanzo autobiografico. Capitoli di vita in cui si narra l’umano e il divino e si svelano ad un tempo inconfessabili segreti che si materializzano in racconti d’arte. Intensa testimonianza di una esistenza, inquieta ricerca di un “brandello di verità”. L’infanzia, rapsodia simbolica dell’anima: mondo dorato e perfetto senza morte, caramelle colorate che scendevano dal cielo divino, di un dio vivente e concreto che raccoglieva l’ingenuo desiderio di un bimbo senza età. E da quella infanzia la scoperta del doppio, la lotta tra il bene e il male, le contraddizioni umane che mirano alla coscienza del paradosso, “scandalo dello scandalo”. Figure prismatiche di un’antitesi che ha il sapore della condanna e dell’assoluzione, abiezione e redenzione, l’una verità dell’altra o, forse, menzogna e falsità dell’altra! Percosse e schiaffi che turbano, quelle che spirano nelle pagine della “Santità”, e compassionevole ascolto delle miserie umane che irridono poteri, anatemi, ritualismi, comode convinzioni, sovrastrutture della paura fattasi preghiera. L’urlo è il silenzio e il silenzio non ha più da raccontarsi. Si direbbe, per l’ardita ambizione che l’attraversa, dopo avere letto “La mia santità” non avremo più voglia di leggere altro. Anzi, l’avremo e come! Continueremo a cercare come Diogene pur sapendo che non troveremo la verità. Forse, quando avremo trovato, per dirla con l’autore, “la medicina della felicità e della fede” finalmente vivremo in pace con noi stessi. Tonino Calà
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