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Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo - copertina
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Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo
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Descrizione


Il volume costituisce un'antologia di testi della tradizione mistica ebraica, meglio nota come Qabbalah, che copre un periodo storico culturale di oltre mille anni (dall'antichità al Cinquecento) e contiene per lo più testi inediti o mai tradotti in italiano. Le opere qui presentate non hanno solo valore di sapienza mistica, di ricerca nelle profondità del mondo; esse sono anche testi letterari di grande bellezza, di autentica poesia. Il panorama italiano mancava di basi adeguate alla conoscenza delle tradizioni ebraiche e mistiche, per altro non estranee alla cultura del nostro paese. Fra Medioevo e Rinascimento, infatti, gli umanisti italiani dimostrarono grande interesse per il mondo ebraico in generale e in particolare per la Qabbalah.
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Dettagli

1995
1 gennaio 1997
LXXIV-719 p., ill.
9788806137120

Voce della critica


recensione di Luzzatto, A., L'Indice 1995, n.11

Il pubblico dei lettori italiani, nel suo crescente interesse per la cultura ebraica in genere, si è probabilmente appassionato alla mistica ebraica dai tempi della prima pubblicazione del classico di Gershom Scholem sulle sue principali correnti. Da allora sono uscite numerose pubblicazioni, generalmente traduzioni anche di buone firme, con due difetti abbastanza comuni: il primo, quello di sintetizzare esageratamente, spesso sotto veste di opuscolo, un tema tanto complesso da generare ancora conflitti di interpretazioni; il secondo, quello di non fornire al lettore interessato una panoramica sufficiente delle fonti.
Ma ha poi senso parlare di mistica 'ebraica'? E in caso affermativo, la stessa deve essere vista come una corrente di pensiero alternativa a quella maggioritaria, la corrente nomistica, molto più conosciuta, che parrebbe avere egemonizzato per secoli la vita spirituale delle comunità ebraiche? E ancora: si tratta di una corrente culturale antica, che risale, come vuole la sua stessa tradizione, a un Maestro tannaitico come Shim'on ben Yochay (IV generazione tannaitica, della metà del II secolo), se non ancora prima, o è piuttosto un prodotto della diaspora europea, soprattutto di quella provenzale e spagnola?
Un'ultima osservazione a titolo introduttivo. La concezione ebraica del Dio 'unico' (che contrasta con le "opposizioni" con le quali le esperienze mediate dai sensi giungono alla nostra coscienza, come la luce e la tenebra, la gioia e il dolore, il bene e il male), che non può neppure essere 'visto', dunque di per sé inaccessibile ai sensi, comporta di necessità che si può sapere di Dio solo attraverso le sue manifestazioni, che purtroppo sono spesso incomprensibili alla nostra ragione; e che si può 'servire' Dio solo eseguendone i comandamenti, anch'essi spesso incomprensibili alla nostra ragione. Il che non toglie però che singoli individui particolarmente dotati o adeguatamente preparati siano in grado, sia giungendo a un estasi che supera la "gabbia dei sensi", sia cercando nella stessa Torah un suo significato profondo che va al di là dei fenomeni superficiali, quali sono il lessico, la grammatica, la discorsività apparentemente banale, di "salire" verso Dio. E questa è la mistica praticata, esercitata, che si fonda però sulla mistica intesa come filosofia.
Una mistica, dunque, che adopera come propri strumenti la preghiera (ma con trasporto) e anche certamente l'applicazione dei precetti, ma sempre cercandone un significato che vada al di là delle semplici apparenze. Così concepita, malgrado abbia subito le influenze sia della gnosi sia, forse molto di più, del pensiero neoplatonico, la mistica ebraica ha certamente qualcosa di specificamente ebraico; e, pur seguendo un suo percorso specifico, non diventa quasi mai un percorso alternativo, tanto meno un percorso che mira coscientemente a uno scisma.
Nella cornice di questi interrogativi, il grosso volume che ora ci viene offerto rappresenta un importante e lodevole sforzo di fornire allo studioso serio in una forma adeguata quella che chiameremmo la materia prima che fino a questo momento gli mancava pressoché totalmente. Un particolare elogio va rivolto alla selezione del materiale e alla sua versione in lingua Italiana.
Più di un lettore, che era finora abituato a vedere nello "Zohar", il "Libro dello splendore", redatto in Europa e in tempi relativamente recenti, tanto la summa che il punto di partenza della letteratura mistica ebraica, sarà certamente sorpreso nel vedere che la raccolta dei testi ha inizio con un lungo brano talmudico del trattato "Chagigah"; che non esaurisce certamente i brani mistici del "Talmud", ma ne costituisce indiscutibilmente il blocco più cospicuo e forse il più rappresentativo. Se a questo proposito può essere mosso un appunto ai curatori, esso consiste semmai nell'eccessiva modestia dell'apparato di note ai testi. Ciò è particolarmente avvertito nei due capitoli relativi al "Talmud" e allo "Zohar", che sono testi nei quali la modalità espositiva è molto lontana dalle abitudini del lettore occidentale; senza contare che persino nella modalità di studio tradizionale essi, più che 'letti' dal singolo individuo, sono esposti e anche discussi a viva voce in un rapporto aperto e creativo fra maestro e allievo. La valida traduzione che trasporta in italiano un linguaggio difficile e alle volte addirittura controverso dovrebbe essere accompagnata da una specie di guida alla lettura, per evitare che un lettore comune, scoraggiandosi dopo un primo tentativo, fosse indotto a rinunciare a una lettura completa.
Molto utile, diremmo eccezionalmente felice, scegliere di presentare "'etz chayyim" di Chayyim Vital, l'allievo prediletto di Luria, che - caso non isolato nella storia del pensiero, che si ripeterà per quanto riguarda il "Besht", fondatore del chassidismo - fu quello che mise per iscritto l'insegnamento orale del grande maestro. Questo testo è tradotto per la prima volta in una lingua europea, cosa che lo rende particolarmente prezioso. Ma perché non dire anche che l'autore era di origine italiana come denota il suo appellativo "Calabrese"? E ciò non per un'assurda glorificazione nazionale, ma per sottolineare i rapporti precoci fra l'Italia del Cinquecento e la Kabbalah luriana, forse corroborati dal fatto che le prime due edizioni a stampa dello "Zohar" videro la luce a Mantova e a Cremona nel 1558 e nel 1559.
Questi dettagli potrebbero forse aiutare il lettore ad approfondire alcuni aspetti non marginali dello sviluppo successivo del filone cabbalistico nella cultura ebraica italiana, collegandosi ad esempio con il brano di Moshe Chayyim Luzzatto, del quale molto giustamente Busi, al di là dell'aspetto pittorico della sua ispirazione dovuta al 'maggid' (apparizione personale che rivelava al mistico padovano segreti cabbalistici), sottolinea il ruolo di divulgatore appunto della Kabbalah luriana. È apprezzabile la scelta specifica, per quest'ultimo autore, de "Le centotrentotto porte di sapienza", sia per non seguire il comodo percorso del "Sentiero della rettitudine", generalmente già conosciuto e già accessibile al lettore europeo; sia per presentare un testo che doveva essere stato molto controverso (almeno in Italia) se la sua pubblicazione, postuma, fu fatta nell'Europa orientale, lontano dalla patria di nascita dell'autore. Sui rapporti fra Vital e i cabbalisti italiani sarebbe ancora da indagare; può essere interessante apprendere da Tishby (Chiqré qabbalah u-shluchotéha), che Luzzatto possedeva una copia dello "'otzerot Chayyim" di Vital, riccamente annotata e utilizzata per insegnare al suo gruppo di allievi.
Un apprezzamento particolare merita, infine, la presentazione nel "Liqquté amarim" di Schneur Zalman di Liadi, che ha il pregio di estendere la documentazione quasi ai giorni nostri, completando così l'orizzonte nel quale, storicamente, si dipana la mistica ebraica; ed è, come si vede, un orizzonte estesissimo.
L'introduzione di Giulio Busi è accurata e ricca di dettagli. Se le si può muovere un appunto (a parte inderogabili esigenze editoriali!) è semmai quello di essere troppo breve (68 pagine, su un volume che, comprendendo le annotazioni e gli indici, ne conta più di 700).
Questa brevità comporta la rinuncia, evidentemente consapevole, a presentare al lettore italiano, accanto a una preziosa antologia di brani cabbalistici per lo più inediti in una lingua occidentale, anche una panoramica del dibattito critico sulla Kabbalah, che in Israele è forse appena iniziata. Che rapporto passa tra la filosofia mistica e la prassi mistica? L'una e/o l'altra possono in qualche modo entrare in conflitto con l'ebraismo tradizionale? O possono essere considerate una corrente di minoranza, sempre presente, quasi a dimostrare il fondamentale pluralismo che pervade, o dovrebbe pervadere il mondo ebraico? Che rapporto passa fra la mistica e i movimenti messianici, soprattutto quello sabbatiano?
E infine, di fronte alla novità dirompente dell'ebraismo "laico" che è emersa con il movimento sionistico e con la fondazione dello Stato di Israele, come si sono posti i pensatori "mistici"? Almeno un tentativo di risposta è reperibile in "Rav Avraham Yitzchaq Kook" (1865-1935) che, con uno spazio adeguatamente maggiore nell'introduzione, avrebbe permesso di valutare una problematica complessa che si dipana attraverso almeno due millenni di storia ebraica, ancora ai nostri giorni aperta a nuovi contributi.

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