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Nel nome di un dio barbaro
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Nel nome di un dio barbaro

Descrizione


Una sera del febbraio 1921 alcune persone si incontrano a cena ospiti di Fratello e Sorella, che oscuramente si amano. Si tratta di una cena come tante eppure strana, insolita: molte chiacchiere, qualche discorso serio, buoni cibi, tante pause dentro cui ogni commensale si perde a modo suo, scavando le proprie voragini interiori. Alla fine della cena il padrone di casa saluta i suoi amici: dice di voler andare a caccia di anatre, ma vuole compiere un gesto estremo. Prima di compierlo sfoglierà i quaderni che si è portato dietro, dove ci sono le storie di ognuno dei commensali. Storie d'amore e di violenza, microtragedie ironiche e patetiche che ruotano intorno al desiderio e al dolore.
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Dettagli

2002
12 febbraio 2002
140 p.
9788806160449

Valutazioni e recensioni

5/5
Recensioni: 5/5
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Silvia Crupano
Recensioni: 5/5

Un libro denso di passioni, rosse e nere, eros e thanatos. Un capolavoro di micronarrazione che coglie la tragica filigrana della vita. Colpi di scena ma anche introspezione e crudezza, palpiti di tenero amore e ondate di incontrollabili passioni. Un libro per chi pensa che la ragione possa tutto... Onore al merito Sergio, hai saputo ritrarre le tinte fosche, gioiose, inconfessabili, delle nostre esistenze.

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alina
Recensioni: 5/5

un libro favoloso, che riesce a catturarti, come le sue lezioni di estetica.

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Recensioni

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Voce della critica

Dopo aver provato la strada classica del romanzo filosofico - trama netta e semplice, riflessioni complesse - nella Favola delle cose ultime (Einaudi, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 6), ora Sergio Givone si misura con un'opera letterariamente molto più ambiziosa, pur non rinunciando a piegare le forme tipiche della narrazione alle esigenze del discorso teoretico, che gli è, anche professionalmente, più familiare. Questo nuovo romanzo si svolge su piani temporali diversi. Uno, che fa da cornice narrante, racconta dolorosi e torbidi eventi accaduti nelle ultime settimane di guerra a Rigomago, in Piemonte, nella tarda primavera del 1945. Questi fatti (gli americani che requisiscono una casa padronale i cui proprietari sono ancora fanaticamente fedeli al fascismo e ai suoi deliri di morte, il marito della giovane padrona di casa che combatte sino all'ultimo con la Repubblica sociale e muore ucciso dai suoi torturatori, sua moglie posseduta e stuprata dagli ufficiali americani, che le lasciano un figlio in grembo, il processo che le autorità alleate intentano contro i loro uomini per poi assolverli o comunque giustificarli) ne contengono a loro volta altri, avvenuti più di vent'anni prima, all'inizio del fascismo. Anche di questi episodi più antichi il centro sono la casa nobiliare di Rigomago e i suoi ex ricchi abitanti e proprietari, con i loro fedeli servitori e i loro ospiti comprensivi e feroci. Qui si svolge una cena che dovrebbe festeggiare la fine delle angustie finanziarie dei padroni di casa, in particolare dei due fratelli che la abitano e che hanno convocato per l'occasione parenti e amici. Di ognuno di questi il romanzo racconta le storie, servi e padroni accomunati dall'imprevedibilità degli atteggiamenti e dei pensieri, dall'incapacità a far fortuna, e, soprattutto, dalla passione, da quel "dio barbaro", dall'eros selvaggio e travolgente che li spinge ai gesti più estremi e assurdi (come quello del marito che si accieca dopo aver visto la moglie posseduta da altri da lui stesso ingaggiati a quello scopo).

La cena si rivela una festa sacrificale, in cui la vittima più sofferente (il fradèl) si uccide, e gli ospiti attendono la fine presagita cercando con trepidazione, angoscia o malizia (a seconda dei casi) di capire e misurare il peso della verità. In particolare lo fa il personaggio che Givone riprende più direttamente dal suo precedente romanzo, don Concina, umile, sensibilissimo prete che esplora a fondo il dramma del male nel mondo, della colpa dell'uomo e delle responsabilità di Dio. L'opposizione tra il pensiero doloroso e religioso di don Concina e quello malizioso e empirico dell'amministratore ladro, il fascista Feralis, fa da asse portante a un lungo discorso filosofico, in cui la lingua si inceppa, accenna e non dice, allude e si perde.

Il centro teoretico esplicito del libro è qui, ma il nucleo gravitazionale del romanzo sta nella difficoltà, ovunque diffusa e risorgente, a dire il pensiero estremo, che è continuamente smentito, confermato e rinviato dalla forza, o meglio, dalla debolezza delle passioni, dall'amore, dalla politica, dall'arte, dalla storia. Di qui la forte scommessa stilistica della scrittura, tutta slanci e frenate, gremita di punti fermi e di inizi, frantumata in una miriade di microfrasi, affollata da lingue che si mescolano (italiano, dialetto, inglese), fatta di discorsi che cominciano e si interrompono. Del resto i narratori esterni del romanzo sono due personaggi quasi senza lingua, non abitati dalla parola né spaesati in essa, ma collocati come prima del linguaggio, là dove cose e persone si possono vedere senza che la lingua le renda imprecise, non vere, le nasconda o le uccida. A raccontare sono la vecchia serva che ricorda e ripete il dramma che ha visto e sofferto e dice ormai senza dire e il figlio muto dello stupro, che solo all'ultimo riacquista la parola parlata per farne lo strumento per scrivere proprio il libro che leggiamo. Ed è questa, di due narratori collocati alle soglie del linguaggio, la splendida giustificazione narrativa di una chiave stilistica che ha (mi si passi la sequenza) una ragione teoretica fondamentale, quella che il male e la morte, il bene e la vita, l'amore e il dolore, il corpo e lo spirito non possono essere detti sino in fondo eppure non si può non cercare di capirli, non possono essere guardati nella loro devastante contraddittorietà e mutevolezza eppure non possono non essere radicalmente vissuti.

Questo libro è il tentativo di scrivere una cronaca (con tutti i caratteri proprio delle storie: realismo, concretezza, linguaggi molteplici) dell'assoluto (il bene e il male) che è in noi, di dare figura, dimensioni concrete e umane all'assurdo universale e astratto dell'essere. Tentativo ambizioso, a rischio. Non tutto mi sembra, in effetti, sempre e perfettamente dominato dall'autore, che non ha risparmiato su nulla e quindi ha popolato il suo libro di talmente tante vicende, personaggi, espressioni dell'eros e della morte, che non da tutti riesce a trarre le risorse che pure vi ha immesso a profusione. Penso alla singolare coppia dei vecchi servi di casa o all'enigmatico Viotto, il suonatore che non suona o al bel Nazareno, l'efebico ragazzo che sembra sapere già tutto e sorvolare su ogni cosa. Ma se questo romanzo pecca, pecca per eccesso e poche volte capita di avere, con un romanzo italiano, così intensa la sensazione di trovarsi di fronte a un libro di qualità superiore (si legga la scena in cui tutti gli ospiti della grande casa corrono nel buio e nel freddo, dietro Surèla che ha capito la tragica verità del fratello), che forse faticherà a trovare lettori, ma che certo non sarà avaro di soddisfazione per chi avrà sostenuto la fatica (del resto non così grande, data la mole contenuta e la vivacità delle trame) di leggerlo sino all'ultimo.

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Conosci l'autore

Sergio Givone

1944

Sergio Givone è nato in provincia di Vercelli nel 1944 e risiede a Firenze. Filosofo e romanziere, è professore emerito all’Università di Firenze, dove per anni è stato ordinario di Estetica presso la facoltà di Lettere e Filosofia. I suoi studi riguardano in particolare l’estetica e il pensiero tragico. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo, per citarne solo alcune, Storia del nulla (Laterza 1995), Non c’è più tempo (Einaudi 2008), Metafisica della peste (Einaudi 2012), Luce d’addio. Dialoghi dell’amore ferito (Olschki 2016), Quant'è vero Dio (Solferino 2018).

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