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Fedele al suo proposito di pubblicare poeti lontani dai circuiti letterari collaudati, l'editore Marco Saya propone ai lettori questo volume di Bruno Lugano, un anziano signore di Viareggio, vissuto a lungo in Australia facendo "di tutto". Un'infanzia difficile tra affidi e orfanatrofi, un padre sparito e non rimpianto, una giovane madre ripudiata dalla famiglia, teneramente celebrata "come un cucciolo di innocenza", Bruno Lugano descrive se stesso in frasi incisive: "nervi fragili e presunzione divina...malgrado parli sempre di me, di me non saprei dire granché". In effetti, la sua scrittura non potrebbe essere definita propriamente autobiografica: l'autore racconta cose comuni a tutti, e lo fa sentendosi portavoce di un sentire collettivo, cercando sempre un terreno di condivisione con chi lo legge: "Non fateci caso se mi viene da piangere in questi casi/ a me viene di non farci caso". Non c'è nessuna scaltrezza formale nei suoi originali enjambements, solo l'urgenza di seguire un pensiero e il bisogno impellente di manifestarlo, con "un ritmo ossessivo e un verso ipertrofico", come suggerisce Antonio Bux nella postfazione. Alla poesia Lugano affida un compito di salvezza dalla banalità quotidiana, e la sua fede nella parola che guarisce appare religiosamente umile: "Parole lampo/ per scrivere con l'ombra di riserva/ qualcosa di molto chiaro che non ricordo più". Sono versi travolgenti nella loro spudorata ingenuità, soprattutto in alcuni luminosi incipit: "Mi hai lasciato d'estate, per fortuna!", "Provo tutto ciò che prova l'acqua chiara", "Mi mangio il cielo e la terra a cucchiaiate". E perdoniamo volentieri all'autore se gli capita spesso di perdersi in riflessioni filosofeggianti che annacquano la tensione poetica, se poi qua e là riusciamo a raccogliere altri barlumi di improvvisa bellezza: "quando sei solo vai incontro a un dio da fermo", "anch'io ho capricci di ragno fiero, nella solitudine", "si comincia tutti dal proprio zero disperato".
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