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«Una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere.»
Uno, nessuno e centomila (1926) fu definito da Pirandello "romanzo testamentario". Si tratta infatti del suo ultimo romanzo e segna il culmine della riflessione sulla disgregazione del soggetto iniziata con Il fu Mattia Pascal (1904). Attraverso la tragedia di Vitangelo Moscarda – che scopre di essere estraneo a se stesso, "costruito" dagli altri a modo loro, molteplice quante sono le situazioni in cui si trova – Pirandello costruisce una delle rappresentazioni più efficaci dell'assurdità dell'uomo moderno, e delinea la sua filosofia. Alla base della sua visione del mondo, come mostra il filosofo Remo Bodei, c'è la sfiducia che l'uomo possa accrescere la sua coscienza in modo positivo attraverso la messa in luce e il superamento delle contraddizioni.
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grandissimo classico!!!
Per entrare meglio nel ventre di questo tragico scherzo umano, nelle fratture anche comiche di quest'odissea interiore, iniziamo dal nome: Vitangelo. L'incontro fra l'angelo e la vita, eterei echi confortanti, calmi, distensivi, immessi nel concreto che avvolge. E poi il cognome: Moscarda. Un rintocco immediato di fastidio nel richiamo alla mosca, aggiunto alla melma attaccaticcia della mostarda (basta cambiare una consonante e ci siamo). Già in questo segno sbattono le ossa di un sogno d'identità sensazionale, la chiave d'entrata di un labirinto di dentro che è già da solo destino, sogno grottesco e realtà più che profonda. Sentiamolo parlare: "Ero rimasto fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, ma non mi pareva affatto che quelli che m'erano passati avanti e avessero percorso tutta la via ne sapessero in sostanza più di me. M'erano passati davanti ma poi in fondo alla via avevano trovato un carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza e ora se lo trovano dietro. Io non tiravo nessun carro e non avevo perciò nè briglie nè paraocchi. Vedevo certamente più di loro, ma andare, non sapevo dove andare". Periodo magnifico, un trattato sociale che fende in mille spicchi il diabolico frutto della curiosità. Che cosa succede al tizio narrante? Perchè subito quest'attacco, questa stoccata al prossimo? Non la smette, e insiste dicendoci: "Io volevo essere solo senza ME, senza quel ME che io già conoscevo". Come uno specchio di frantumi sfatti, egli conta i mille (e oltre) se stessi che lo cingono senza più venie a capo del suo filo di matassa. E' smarrito, perso, sfarinato in troppi sé scomposti ognuno nel suo verbo vero e in una fetta di assurdo. Non si sa più chi domini, chi guidi, chi agisca in questa folla più che sballottata. La facciata e l'essenza, scontro immane, due fratellastri su una pista accerchiata. Ma da chi? Da altri se stessi, da altre occlusioni e impicci nel deserto dell'io. "Conoscersi è morire", dirà a un certo punto. Basta
Quanti libri avete letto, finora? Cento? Mille? Un milione? Anche se ne aveste letti un milione, non avreste letto ancora abbastanza se, tra essi, non ci fosse questo autentico capolavoro. “Uno, nessuno e centomila” è un’opera talmente straordinaria che si fa fatica a trovare le parole giuste per descriverla. Giustamente considerato uno degli scritti più rilevanti di ogni epoca, è un romanzo che, letteralmente, ti cambia la vita. Perché ti spinge a vivere in maniera diversa, ti spinge alla riflessione su te, sugli altri, sul rapporto tra te e gli altri, tra te e il mondo. In fondo, è questo ciò che chiediamo a un libro per meritare di essere definito capolavoro: renderci diversi, migliori, più ricchi, aggiungere un pezzo che prima non c’era al mosaico del nostro essere. E, se questo è vero, “Uno, nessuno e centomila” è davvero un capolavoro. Indispensabile.
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