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Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?
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Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria? - Cesare Segre - copertina
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Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?

Descrizione


Nel capitolo di apertura, sotto il titolo Una crisi anomala, scrive Cesare Segre: "Insinuazione, supposizione, impressione: che la critica letteraria sia in crisi, è da qualche anno che lo si dice, e alla fine bisogna riconoscerlo, anche se con molti distinguo." La critica presa in esame ed alla quale nel libro si fa costante riferimento è quella di stampo strutturalistico-semiologico, la più combattiva e ricca di risultati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta. I suoi fautori e maestri sono stati Foucault, Barthes, Greimas, la Kristeva e Tododov.
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Dettagli

1993
1 gennaio 1997
VI-316 p.
9788806133276

Voce della critica


recensione di Ferroni, G., L'Indice 1994, n. 4

Se si guarda alla consistenza e al valore degli esercizi critici in esso raccolti, il titolo di questo libro può apparire paradossale: nell'atto di darci "Notizie dalla crisi" (solo sulla copertina troviamo il sottotitolo "Dove va la critica letteraria?"), Cesare Segre si mostra come sempre "critico" in buona salute, con prove esemplari della sua ben nota capacità di mettere in luce strutture e caratteri dei testi letterari, insieme con cartesiano rigore e con sottile senso della contraddizione. A un primo capitolo, che costituisce una riflessione sulla "crisi" indicata nel titolo, ne seguono altri diciotto, che riprendono saggi e interventi quasi tutti apparsi precedentemente, in un arco decennale, dal 1984 al 1993, dedicati in parte a problemi di teoria e metodo e in parte a testi della tradizione italiana (da Salimbene de Adam ad Alessandro Manzoni, passando per la tradizione novellistica, Petrarca, Folengo, Alfieri): ma non mancano escursioni verso altre letterature, richiami, proiezioni, indicazioni di rapporti, nel vasto raggio delle conoscenze e delle curiosità dell'autore.
Rispetto alle precedenti raccolte di saggi dello stesso Segre apparse con ordinata cadenza nei Paperbacks einaudiani, "Notizie dalla crisi" presenta un dato nuovo: i capitoli che seguono quello di apertura sono ordinati in una serie di gruppi riferiti a questioni teoriche che in un modo o nell'altro chiamano in causa la "crisi" indicata nel titolo. Ognuno di questi gruppi ("Fino allo strutturalismo"; "Critica delle varianti e isotopie"; "L'area del comico"; "Nella storia dei generi letterari"; "Nuove indagini sulla "funzione Gadda""; "Riflessioni contro corrente sui motivi"; "Al centro, il corpo"; "Ermeneutica e storiografia") è introdotto da un'apposita riflessione, presentata in corsivo.
Questa struttura crea una specie di dialogo tra quell'universo in crisi e una parola critica che continua a procedere in modo cristallino, facendo leva su una inesauribile disposizione a distinguere, a individuare forme e strutture, a prolungarsi con non turbata sicurezza, senza escludere la possibilità di riconoscere le falle del panorama circostante. Segre non aveva del resto avuto bisogno di assistere al configurarsi della crisi stessa per rivolgersi a una semiotica "filologica", attenta alle componenti più diverse e contraddittorie della comunicazione letteraria e al più ampio contesto storico, culturale, antropologico: sempre egli ha saputo associare critica e teoria, allontanandosi dal rischio (che ha pesato su molta critica di matrice semiologica) di fare dei testi mere verifiche 'in re' di presupposti teorici. Questa associazione tra critica e teoria, partendo dall'originario e mai rinnegato orizzonte semiotico, ha condotto la critica di Segre, in modi sempre più articolati, verso una dimensione filosofico-antropologica, calata nella concretezza dei testi, agli antipodi delle piratesche incursioni nel letterario a cui da tempo ci hanno abituato filosofi e cultori di scienze umane: è l'indagine sui testi, l'individuazione delle strutture che agiscono in diversi universi testuali e delle realtà con cui quelle strutture mettono in rapporto, a far parlare tutto lo spessore di conoscenza e di esperienza della letteratura, a ritrovare nella ricchezza dei suoi significati le immagini più essenziali del vivere dell'uomo nel tempo. Questo ampio orizzonte conoscitivo si manifesta del resto nei termini più espliciti in saggi di tipo più teorico (sempre comunque legati a un confronto interno con precisi testi), come qui quello sui "motivi" nella narrativa e quello su "Il corpo e la grammatica" (che mostra come molti aspetti del linguaggio e molte determinanti categorie sèmiche siano in diretta relazione con la corporeità).
Non si può comunque dar conto di tutte le acquisizioni critiche e teoriche che vengono dai singoli saggi di questo volume: si può solo aggiungere che, quando si trova a confrontarsi con singoli insiemi testuali (ad esempio nei due su Petrarca o in quello sulla "Vita" di Alfieri), la parola critica di Segre si anima di un'interna passione per l'oggetto, insiste a circondarlo con il passo misurato ma partecipe della scomposizione e della distinzione; traendo alla luce tutte le possibili articolazioni comunicative, seguendo i tracciati che esse propongono al destinatario, il critico esige che il rapporto con la letteratura si dia in un orizzonte di ferma razionalità, mostra che solo una disposizione razionale (in ultima analisi illuministica, non disposta ad accettare vaghi aloni e confuse indeterminatezze) può essere oggi congrua con un pieno riconoscimento del valore della letteratura stessa.
Questo razionale e fermo dispiegarsi delle distinzioni sembra però talvolta far affiorare come un avvertimento della propria insufficienza: nel cristallino procedere del suo linguaggio, proprio nel suo essere sempre in piena luce, la critica di Segre sembra rinviare spesso a un possibile risultato che improvvisamente vada al di là, "dica di più" sul senso dei testi studiati, offra una "conclusione", un punto d'arrivo che però resta sempre eluso, evitato e non raggiunto. Il darsi di questa interna tensione verso un "fuori" era mostrato del resto, in modo diretto, dal libro di Segre del 1990, "Fuori dal mondo": e forse in esso si può riconoscere un segno del coinvolgimento nella crisi di questo studioso così avvertito e consapevole, di questo critico peraltro così "in salute", come di ogni critica sena e rigorosa.
Torniamo così ai temi posti sul tappeto dal capitolo introduttivo del volume, in cui si può vedere il riferimento a due "crisi" diverse: una crisi per così dire "endogena", che riguarda lo svolgersi stesso del lavoro e del dibattito critico e teorico (in cui si riconosce l'esaurirsi della vitalità della critica strutturalistico-semiologica, soprattutto per azione dell'estetica della ricezione, del decostruzionismo e della critica 'reader-oriented') e una crisi "esogena" (causata dal generale arretramento della letteratura di fronte ai nuovi aspetti della civiltà multimediale). Segre dà alcune condivisibili motivazioni della crisi "esogena" (la confusione ideologica degli anni più recenti, lo strapotere dei media, la responsabilità della scuola): ma finisce per lasciarle quasi immediatamente da parte, concentrandosi sulla crisi "endogena", sullo sviluppo interno del dibattito metodologico, sulle nuove strade che possono essere affrontate non rinunciando mai a una tensione costruttiva, convinto che negli studi letterari si dia comunque la possibilità di un organico avanzamento di conoscenze, di una progressiva soluzione dei problemi volta per volta affioranti, Segre finisce per muoversi in questa problematica della "crisi" come chi ben conosce la strada per uscirne: cerca di motivare con ragioni "interne" la scarsa tenuta attuale della critica strutturalistico-semiologica, offre indicazioni essenziali sui limiti e gli errori delle tendenze neoermeneutiche e decostruzionistiche, ribadisce la validità di una semiotica storica e filologica di impianto "realista", di una concezione "comunicativa" della letteratura impegnata a "combattere per la vita (del testo) contro la morte (del testo)". E ancora indica i nuovi problemi che questa critica, a parer suo, dovrebbe affrontare, proprio in vista di un'uscita dalla "crisi": integrazione tra teoria della comunicazione e teoria "della non-comunicazione letteraria", in un continuo confronto tra dati testuali e dati extratestuali; nuova attenzione al problema del "senso" di un'opera, in una prospettiva pragmatica; necessità di un rinnovato riferimento a un'"estetica".
Anche su questa soglia "negativa", è insomma in atto la tensione costruttiva che, come si è visto, percorre i saggi che costituiscono il corpo del volume: l'ultima parte del quale, ricollegandosi al primo capitolo, offre una critica ben determinata (e da condividere quasi completamente) ad alcuni fondamenti delle mode decostruzionistiche e neoermeneutiche, dando per contro significativi riconoscimenti a un'ermeneutica storica ostile alla fluttuazione indeterminata del senso, mirante al rispetto del testo, alla comprensione dei suoi sensi molteplici. In termini più generali Segre collega la stessa curiosità per l'ermeneutica all'accrescersi della difficoltà di comprensione di un passato che sempre più velocemente si allontana dal mondo attuale; per ciò che riguarda in particolare le teorie che insistono ossessivamente sul "lettore", egli parte da una constatazione empirica (ma densa di risvolti sottili), secondo cui, "essendo anche il critico un lettore, egli conosce molto di più sulla lettura (sulla ricezione) che non sulla scrittura (sull'emissione)"; nel gioco di complicazioni di molta critica reader-oriented egli vede l'esito stravolto del vecchio "miraggio di fondare scientificamente la critica". Da questi e altri spunti critici qui da Segre avanzati si potrebbero estrarre riflessioni sul significato ideologico (e sociologico) dell'orizzonte decostruzionistico, sulle condizioni concrete di quelle procedure intellettuali che tendono a riavvolgersi all'infinito su se stesse, sulla inessenzialità di una critica che, mentre pretende di "decostruire" e di "rovinare" la chiusa sacralità dei testi, non fa che esibire se stessa, esaltando ossessivamente il proprio valore, per giunta entro un contesto comunicativo che le attribuisce un ruolo marginalissimo, la scambia quasi per una fiction ornamentale, senza nessuna efficacia sociale.
In ogni modo, queste situazioni e questi problemi ci costringono a porre di più l'accento sulla crisi "esogena" e sul suo carattere radicale, sul pericolo che per la sopravvivenza della letteratura (e della razionalità critica) rappresentano il distanziarsi del passato, il predominio dei media, il dilatarsi della pervasività pubblicitaria, i crolli e le rovine di questa fine di millennio, la "mutazione antropologica" di cui siamo testimoni. Queste cose agiscono direttamente sul configurarsi dei metodi, sullo svolgersi delle letture e delle teorie: e forse occorrerà rendersi conto del fatto che non ci sono tendenze e orientamenti da privilegiare, ma che l'unica provvisoria risposta alla "crisi" può essere data dal sopravvivere della tensione razionale, della volontà di comprensione, e dall'individuazione di nuovi modi di difesa "postuma" del letterario.
A tal proposito occorrerebbe forse allargare ulteriormente le prospettive: l'attenzione alla filologia, alla storicità, all'ermeneutica "buona" potrebbe ricevere essenziali apporti non solo da Bachtin e Lotman, ma da Benjamin, da Adorno, da Szondi, in genere da quell'orizzonte "francofortese" troppo precipitosamente messo da parte negli anni ottanta (e ora da riconsiderare proprio per una nuova visione "critica" della società multimediale e per quell'urgenza di confrontarsi con l'estetica indicata dallo stesso Segre). Né andrebbe tralasciato un più partecipe sguardo alle nuove possibilità di una critica di tipo "tematico". E ancora si dovrebbero definire più da vicino i caratteri specifici della situazione italiana, sia in negativo che in positivo: e a tal proposito si potrà constatare come lo stesso recente ruolo egemonico della critica strutturalistico-semiotica sia stato solo apparente, quasi illusorio, mentre non si dovrebbe prescindere da una tradizione "italiana" ben più composita, aperta e problematica, che ci spingerebbe a risalire indietro addirittura al vecchio De Sanctis e a ritornare a questo fine millennio per percorsi ben più tortuosi e corposi di quelli che Segre sembra soggerire.
La crisi appare più radicale e urgente di quanto la maestria, il rigore, l'orizzonte teorico di questo volume non possa far pensare. Segre finisce per nasconderla, magari involontariamente; è come se la sua lucidità non gli permettesse di vedere fino in fondo il carattere estremo dell'oggetto di cui ci dà queste "notizie". Restano in ombra molti aspetti della deriva in cui è presa sia la parola degli equilibristi della decostruzione, sia quella di chi, come Segre, continua a riconoscere il valore della letteratura, a voler rispettare il suo "tesoro di significati". Preso inevitabilmente in questa deriva, il lavoro del maggior esponente della semiotica letteraria italiana continua comunque a darci prove essenziali di razionalità, di misurata e sicura resistenza: compagnia, conforto e confronto per tutti coloro che nella crisi, anche dai punti di vista più diversi, continuano a viaggiare.

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Cesare Segre

1928, Verzuolo (Saluzzo)

Cesare Segre (1928) è stato uno degli intellettuali più importanti a livello internazionale, noto come teorico della semiologia, filologo e saggista; la sua attività di critico letterario è ben nota anche ai lettori del «Corriere della sera», dove ha scritto con regolarità. Segre è vissuto e ha studiato a Torino, dove si è laureato nel 1950, allievo di Benvenuto Terracini e dello zio Santorre Debenedetti. Libero docente di filologia romanza dal 1954, ha poi insegnato presso le Università di Trieste e di Pavia, dove, negli anni Sessanta, è divenuto ordinario della materia. Accademico della Crusca, è inoltre stato visiting professor presso le Università di Manchester, Rio de Janeiro, Harvard, Princeton,...

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