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La notte del gatto nero - Antonio Pagliaro - copertina
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La notte del gatto nero - Antonio Pagliaro - copertina
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Descrizione


È una vita come tante, quella del palermitano Giovanni Ribaudo: un lavoro dignitoso, una moglie, Vera, e un figlio, Salvatore, che frequenta l'ultimo anno delle superiori. Un ragazzo simile a molti altri, con un po' di sogni per la testa e qualche piccolo segreto. Ma una notte la paura che è di ogni genitore diventa realtà: una telefonata sveglia di soprassalto i Ribaudo, una sconosciuta cerca Salvatore con voce agitata. Salvatore però non è rientrato. La mattina, dopo angosciose ricerche, Giovanni scopre che suo figlio è stato arrestato: un reato grave, un'accusa incomprensibile. E per quest'uomo, che ha sempre creduto a parole come onestà, giustizia, serietà, e ha cercato di viverle, inizia un incubo, nel quale precipita tutta la sua famiglia. Schiacciato negli affetti, assurdamente e crudelmente privato di un figlio, si trova a dover combattere una battaglia personale contro un muro di indifferenza, di arroganza, di corruzione: una macchina capace di stritolare chiunque, che lo porterà lontano, molto lontano dalla persona che era... Una storia di sopraffazione e una requisitoria morale che investe un mondo intero.
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Dettagli

2012
17 maggio 2012
206 p., Brossura
9788860887467

Valutazioni e recensioni

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geomito1960
Recensioni: 5/5
toccante

Triste, toccante, non retorico e pervaso da amaro realismo. situazione che potrebbe vedere ciasuno di noi purtroppo drammaticamente coinvolti. mi ha molto emozionato nella sua drammaticità e per questo lo consiglio

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maurizio60
Recensioni: 4/5

mi ha molto emozionato e lo consiglio....lettura che ti entra dentro in modo quasi devastante...libro davvero toccante e pervaso da amaro realismo. situazione che potrebbe vedere ciasuno di noi purtroppo drammaticamente coinvolti.

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maurizio-mo
Recensioni: 4/5

Triste, toccante, non retorico e pervaso da amaro realismo. situazione che potrebbe vedere ciasuno di noi purtroppo drammaticamente coinvolti. mi ha molto emozionato e lo consiglio

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Voce della critica

A volte ci sono libri a cui la sorte ha destinato il ruolo di far comprendere meglio e più a fondo la grandezza di altri libri. È questo il caso dell'ultimo romanzo di Antonio Pagliaro, La notte del gatto nero (pp. 206, € 14,50, Guanda, Milano 2012). La vicenda è ambientata nel 2003. Siamo a Palermo, sono le tre e trentadue di notte, quando la vita grigia e povera di fatti di Giovanni Ribaudo, un insegnante precario, viene sconvolta per sempre dall'arrivo di una telefonata. Una voce femminile dal vago accento straniero chiede di suo figlio, Salvatore, un diciannovenne come tanti, capelli lunghi e occhiali D&G usati a mo' di cerchietto. Giovanni chiede alla moglie, Vera, se ha sentito Salvatore rincasare. Vera risponde solamente: "Non l'ho sentito". Comincia tutto qui. Il giovane non è nel suo letto, sembra sparito. Ritroveranno Salvatore qualche giorno dopo, in carcere. Come in un romanzo kafkiano c'è solo la certezza del reato, mentre accuse, moventi e indizi risultano incomprensibili. A partire da quel momento, l'esistenza di Giovanni sarà trascinata dentro un incubo senza fine fatto di avvocati, usurai, false speranze e corruzione; un incubo dentro il quale il protagonista perderà ogni certezza fino a trasformarsi egli stesso in un aguzzino. La notte del gatto nero è la storia di questa sua lenta, allucinata e truce vendetta. Lo stato, a cui Giovanni crede fermamente e verso cui ripone ogni fiducia, si rivelerà come un insieme molecolare e disarticolato di piccoli clan feroci, raggruppati tra loro unicamente da interessi spiccioli e giochi di potere, popolati da individui soli che lottano disperatamente per sopravvivere. In un universo simile, la giustizia semplicemente non esiste: Giovanni lo scoprirà a proprie spese, man mano che i suoi tentativi di fare luce su quanto accaduto verranno tutti sistematicamente frustrati (oltre che sabotati fin nelle loro più minuscole articolazioni) da un potere pulviscolare che riverbera la propria immagine dietro ogni ufficio, dietro ogni porta che si chiude, dietro ogni funzionario che fa solamente il proprio dovere. Giovanni subirà tutto questo senza mai accettarlo realmente. La giustizia non sparisce mai dalla sua mente. "La giustizia che lo Stato gli deve. Lo Stato che gli ha sottratto un figlio sano e gli ha restituito un cadavere". E se lo stato non è in grado di rendergli la giustizia che gli spetta, a Giovanni non rimane altra alternativa che quella di intraprendere un percorso sempre più estremo, nel tentativo folle di ripristinare un ordine equo oramai perduto. Si butterà a capofitto in questa impresa, con lucidità, senza lasciarsi nemmeno la possibilità di coltivare rancore. È una vicenda cupa e feroce, quella raccontata da Pagliaro, una lunga discesa all'inferno fino all'unica, inevitabile conclusione. Nelle sue parole non c'è niente di riparatorio o assolutorio. Il suo è uno sguardo spietato che non risparmia nulla al lettore. Non c'è alcun intento polemico o satirico nella sua scelta stilistica, né tanto meno anacronistiche prese di posizione o altro; c'è soltanto un palese amore per il dettaglio, quasi un'ossessione. La sua scrittura somiglia a un lungo piano sequenza che mostra al lettore tutte le fasi della caduta del protagonista senza mai giudicare alcunché. Così facendo obbliga il lettore a mettersi in gioco, a prendere consapevolezza assieme al protagonista dell'orrore senza rimedio che viene scandito dalla concatenazione degli eventi. È quasi come se Pagliaro puntasse una lente d'ingrandimento contro un formicaio. Tutto il dolore, tutta la confusione e tutta la rabbia di Giovanni Ribaudo vengono condensati in poche frasi misurate, controllate in maniera maniacale. Spesso si tratta di dialoghi, o meglio di rapidi scambi di battute che focalizzano l'attenzione su un gesto, su un particolare, su un microscopico spostamento psicologico: "'Dobbiamo essere uniti' disse Giovanni. Ci credeva davvero. 'Non so più chi sei' rispose lei. Lo fece con amore. Lui si alzò, andò per abbracciarla. 'Dobbiamo farlo per Salvatore'. 'Farlo cosa' chiese lei. 'Essere uniti'". Quasi obbligatorio il confronto con il borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. C'è lo stesso mitologema (la vittima che diventa carnefice in seguito alla morte del figlio), un analogo percorso psicologico, c'è addirittura la stessa modalità di tortura. In entrambe le opere l'azione è ambientata qualche anno prima, quasi a segnare un distacco con l'epoca in cui l'opera stessa è stata scritta. E in entrambe le opere, il protagonista reagisce alla disintegrazione della propria idea di stato rifugiandosi dentro forme di aggregazione alternative: la massoneria nel caso di Cerami, la mafia in quello di Pagliaro. A ben vedere, però, nella Notte del gatto nero c'è anche dell'altro. Un borghese piccolo piccolo esce nel 1976. Sono anni duri, cupi, pieni di contraddizioni stridenti. La crisi petrolifera degli anni settanta, gli accordi di Bretton Woods e le conseguenti politiche economiche restrittive incidono profondamente sul tessuto sociale: i salari tornano a scendere, la mobilità sociale ridiventa appannaggio esclusivo delle classi dirigenti, tutto si ferma. Per milioni di persone l'idea che il futuro si sarebbe svolto per tappe lineari e progressive diventa, da un giorno all'altro, un'utopia. Giovanni Vivaldi, il protagonista del romanzo di Cerami, è figlio della disillusione di tutte quelle persone. La sua parabola vendicatrice è la parabola di una generazione che reagisce alla perdita di ogni certezza sul futuro virando con decisione verso l'esercizio di una violenza che non ha più nulla di riparatrice, ma che, semplicemente, fa emergere la vendetta come valore fondante attorno a cui costruire la propria identità. Fa male constatare come, dopo trent'anni di politiche di attacchi salariali, di privatizzazioni, di delocalizzazioni selvagge e di finanziarizzazione oltranzista, l'Italia di oggi sia tornata a essere molto simile a quella percepita dal borghese di Cerami. Un precario di oggi vive contraddizioni analoghe a quelle che viveva un borghese piccolo piccolo nel '76. Sono entrambi individui condannati al presente. Il futuro, per loro, è un'ossessione. Non potendo poggiare su alcuna narrazione alternativa che dia un senso alle loro esistenze e vivendo una condizione lavorativa deprivante, non possono far altro che assegnare ai propri figli il compito, anzi la missione, di riscattare il proprio nome, il proprio destino. Salvatore Ribaudo e Mario Vivaldi, dunque, non sono soltanto i figli dei due protagonisti, sono anche e soprattutto l'unico futuro che essi possono permettersi. E tanto più quel futuro diventa indecifrabile, tanto più le azioni intraprese per accaparrarselo si caricano di significati, di presagi, di inquietudini. Quando però quel futuro si sgretola, allora niente ha più senso. Giovanni Ribaudo e Giovanni Vivaldi, in questo senso, sono personaggi complementari, speculari. La loro postura, la loro impotenza, il loro desolante squallore raccontano la stessa condizione, lo stesso destino; una condizione e un destino che la storia, il potere, gli eventi hanno loro assegnato e dai quali non riescono a sfuggire. Sono quasi due fotografie della nostra nazione, una scattata nel '76 e l'altra scattata oggi. Basta metterle a confronto per comprendere che Giovanni Ribaudo non è altro che un Giovanni Vivaldi dopo trentacinque anni di sconfitte. La sua solitudine è più profonda, la sua violenza è più insensata, le sue azioni sono più disperate; non gli è valso a nulla cambiare nome, mestiere, linguaggio, miseria, il suo nucleo fondante è rimasto lo stesso. Si è semplicemente riadattato cambiando forma non sostanza. Ha lasciato i grigi uffici ministeriali romani per immergersi nell'anonimo precariato palermitano, senza che questo sia riuscito a scalfirne abitudini e nevrosi. Come un incubo ricorrente, la sua ombra non ha mai smesso di tormentarci. Il grande valore del romanzo di Pagliaro sta proprio in questo: nell'aver saputo cogliere la mutazione profonda dei borghesi piccoli piccoli nostrani e nell'averla raccontata senza falsi pudori, quasi con crudeltà. Daniele Zito

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