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Giusti sembra avere avuto una strana sorte: molto popolare e ricordato a memoria fino a due generazioni fa, e oggi poco conosciuto, per nulla praticato nelle scuole; chi è crede di conoscerlo magari lo ricorda a memoria ricordarlo ma non lo legge, e invece ci sarebbe bisogno di una lettura impregiudicata, che è poi in pratica quasi impossibile perché mancano ora edizioni economiche dei suoi libri: quella, ottima, della universale Feltrinelli in due volumetti risale al 1962 (due generazioni, appunto) e l’unica buona successiva (ma di poco), rilegata e imbalsamata in una collana di classica, è dovuta alle cure di quel Sabbatucci che aveva curato l’edizione economica: e bisogna cercarla d’occasione. Di occasione ghiotta si tratta, perché l’estraneità del lettore di oggi lo potrebbe aiutare a scoprire un Giusti allettante, diverso dal mito risorgimentale, dalle opzioni civili, dal melenso e moralmente ambiguo “Sant’Ambrogio” che imperversava nelle antologie scolastiche. Resistono e si prestano a una lettura rinnovata invece i ritmi impennati e divertiti della “Chiocciola” e del “Ballo”, la polimetria dissacrante della “Vestizione” e della “Scritta”: “un gran trepestio /s’udiva una sera/ di zampe e di ruote…”. Un antenato di Palazzeschi, meno metafisico e più incerto tra le suggestioni popolane e la soggezione alla tradizione letteraria. Uno con cui intonare quinari sdruccioli gratuiti e impertinenti: “Gufi dottissimi/ che predicate/e al vostro simile / nulla insegnate…”.”
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