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recensione di Cusatelli, G., L'Indice 1991, n. 1
La storia della "Voce" (1908-14) è essenzialmente una storia di contraddizioni. All'esasperazione del conato libertario individuale corrispondeva una richiesta di solidarietà collettiva; alla sublimazione dell'estetismo faceva fronte l'urgenza di pronunciamenti morali; alle seduzioni del cosmopolitismo s'alternava la pretesa di affermare i caratteri nazionali delle varie culture coinvolte da un'operazione Europa che le cannonate di Verdun avrebbero presto dimostrato utopica. Ha ragione Mazzarella, nella compatta introduzione a questo volume, quando dichiara l'insufficienza dell'impianto crociano, ostinatamente difeso da Prezzolini, e raccomanda pluralità di disposizioni nell'ascolto di quella pluralità di "voci" (infatti affianca egli stesso alla rivista, come obiettivo della ricerca, anche "L'Anima" e altre pubblicazioni dell'ambiente).
Non che Croce non adempisse alla funzione di dotare la nuova cultura italiana di una ufficialità laica e borghese, replicando al populismo della linea cattolica e ai limiti obiettivi del positivismo. Ma le sue posizioni convogliavano, sulle basi del panlogismo hegeliano, un ottimismo che a parecchi vociani risultava inaccettabile: sul piano teorico, in quanto negazione della sfera esistenziale; sul piano psicosociologico, in quanto indifferenza verso le frustrazioni degli intellettuali emarginati.
Il ponte verso un'altra Europa appare sostenuto, dentro la "Voce", specialmente dai triestini, impegnati con "serena disperazione" a indagare l'area germanica e più ampiamente nordica. Al centro la speculazione di Slataper: intorno a Hebbel, sintomo dell'estinzione del tragico, e intorno a Ibsen, replica di quel nichilismo.
Quindi ecco la scoperta di Kraus; in lui Italo Tavolato ravvisa l'interprete di un legittimo sdegno per l'impotenza della forma a dominare il contenuto nell'interpretazione degli eventi del mondo (la polemica contro il giornalismo corruttore). Ed ecco Theodor Däubler, il poeta cosmico di "Nordlicht", contemplatore di aurore swedenborghiane (Tavolato: "forse un mistico che vuole metter radici nella vita, fissarsi nell'esistenza"). Naturalmente, Strindberg ("Böök", 1912: "non vi è soltanto la visione delle cose, ma la sensazione immediata, sulla pelle, in modo che sembra di toccarle, quando d'un tratto esse si presentano a voi"). Evidentemente Nietzsche, quasi un valore istituzionale per molti della "Voce", dove un'attenzione particolare gli è rivolta da Lajos Fülep, ungherese, amico di Luk cs, esponente della "grande Budapest" (è significativo che egli respinga l'ipostatizzazione dell'artista: "La sua vera filosofia non poteva arrestarsi davanti ai problemi dell'arte, ma voleva abbracciare la vita in tutta la sua vastità e complessità").
Nell'insieme queste presenze boreali (è il termine più giusto, per le implicazioni spiritualistiche) confluivano a testimoniare, per i vociani di scarsa ortodossia crociana o semplicemente non fiorentini, una dichiarata "tragedia della cultura": rifiuto di strutture accademiche, di riti e consuetudini precostituiti e uniformi, rivendicazione di lotte segrete, interiori, non senza l'inevitabile caduta nel velleitarismo. Tale la "pars destruens". Mazzarella, però, riesce a far coagulare una "pars construens" dell'esperienza vociana, ad essa attribuendo, nella seconda sezione del libro, un titolo ben espressivo: "Verso una nuova fede". Scompaiono i triestini, e trionfa Boine, mentre i riferimenti esterni prendono la via di Francia (Pascal, Claudel) e di Russia (Solov'ëv, Tolstoj). Qui incontriamo i maggiori risultati storico-critici di questa originale antologia: la definizione della dimensione "religiosa" della "Voce" (essenzialmente appoggiata agli interventi di Boine).
Rifiuto del limite aporetico del religioso in quanto filosofico, ma incondizionata accettazione - attuale sino a sconcertare - delle implicazioni emozionali e creative d'esso: "Nel pensiero religioso il pensiero laico può, per così dire, veder proiettata e messa rudemente a nudo, sebbene ingigantita e quasi fatta mito, la sua più reale essenza: la non mai chiusa ferita che (sostituito all'Essere, fortezza di Dio, il Divenire) si manifesta ancora in questa necessaria instabilità di equilibrio, in quest'ansia, in questa consapevolezza dell'incompiuto che ogni serio pensatore confessa". Sono lancinanti parole di Boine stesso, 1912, che sintetizzano l'articolo del 23 marzo 1911 sulla rivista fiorentina.
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